di Rebecca Muracchioli classe I B liceo classico Emanuele Repetti di Carrara
In questi due anni di pandemia sono cambiate tante cose: dalle abitudini delle persone ai modi di comunicare. È cambiata la terra stessa, che ha dovuto fronteggiare un’emergenza sanitaria tanto improvvisa, quanto terrificante e sono cambiati gli esseri umani, che da un momento all’altro sono stati costretti a convivere con un nuovo essere infido e silenzioso, quasi invisibile, sconosciuto e mutevole, al quale è stato dato il nome di Covid 19, appartenente al ceppo dei Coronavirus. Da quando la prima molecola di virus ha infettato un corpo umano, generando una serie di reazioni a catena che hanno portato a migliaia di contagi e focolai in ogni zona del mondo, niente per noi è stato più lo stesso.
Cose semplici e banali come andare a scuola, in palestra o al cinema, dare una pacca sulla spalla di un amico, salutarsi con una stretta di mano o pranzare tutti insieme a casa della nonna, alla domenica, sono diventate improvvisamente immagini sfocate e lontane. Per arginare il contagio, infatti, la distanza sociale è stata l’unica soluzione. Per due anni le mascherine hanno nascosto le nostre espressioni facciali e il calore umano generato dal contatto tra corpi è venuto a mancare. Ogni giorno mi siedo in giardino e contemplo la natura fiorire: la primavera non sa cosa è accaduto e fa sbocciare i suoi fiori lo stesso. Ripenso a tutto quello che è successo e che sta ancora accadendo, ma mi capita molto spesso di fare anche congetture sul futuro: così nella mia testa aumenta il senso di incertezza. Tanti momenti che prima sembravano essere banali e scontati, adesso ci sono scivolati via dalle mani senza che ce ne accorgessimo. Siamo stati messi alla prova, abbiamo sofferto all’inizio, quando il tempo sembrava essere scandito solo dalla notte. Eravamo abituati ad essere padroni del tempo, a vivere frettolosamente, dedicando molti attimi agli altri e pochi ai nostri reali desideri. Là fuori il tempo sta scorrendo: io non riesco più a stare ferma, ma ho imparato che posso scorrere insieme a lui. Quello che ieri sembrava tempo perso, deve essere al più presto trasformato in qualcosa di utile per la nostra esistenza. Come disse il filosofo Seneca, la vita non è breve, siamo noi che la gestiamo in modo sbagliato, spesso dedicandoci a passatempi inutili e, per questo, dovremmo cercare il più possibile di non rimandare al domani ciò che può essere fatto oggi.
“Vita, si uti scias, longa est”: la vita, se sai come usarla, è lunga. Questo è l’insegnamento più autentico e moderno del filosofo latino. Vivere il tempo con la consapevolezza che sia importantissimo e sfruttare ogni giorno al massimo delle proprie potenzialità. Seneca in una lettera indirizzata al suo caro amico Lucilio scriveva: “la cosa più vergognosa è perdere tempo per negligenza.” Quella frase mi ha illuminata facendomi capire che quelle giornate apparentemente vuote e prive di significato potevano essere trasformate in qualcosa di produttivo e bello. Creando una routine e dedicandomi a varie attività sono riuscita a sconfiggere la monotonia del tempo. Nonostante l’impossibilità di spostarsi e la “prigionia” forzata in casa, grazie ad una buona gestione del tempo e alla forza della mia immaginazione, sono riuscita a superare questo momento difficile, che mai avrei pensato di dover affrontare. “Vindica te tibi”, mi suggerisce Seneca. Non mi lascio abbattere: continuo a vivere. Solo adesso questa situazione sembra prendere una piega migliore e torniamo a vedere uno spiraglio di luce.
Ma se fuori tutto sembra tornare, o quasi, alla normalità, dentro di noi, giovani adolescenti, che cosa resta? Dentro di noi, che siamo piccoli e inesperti del mondo, ma allo stesso tempo vivaci e curiosi di tutto, quale traccia è impressa? Rimangono i grumi inespressi di emozioni che non siamo riusciti a comunicare perché sopraffatti dallo spavento. Rimane il ricordo delle continue mancanze, di tutte quelle carezze sospese e promesse alle persone a cui vogliamo bene.
E poi ci sono i ricordi. Quelli brutti come le tombe delle migliaia di persone portate via da una malattia che sembrava incurabile, gli ospedali sovraffollati, il personale medico disperato e stanco, la scuola in “didattica a distanza”, le ore interminabili durante quarantena, i tamponi. Ma anche quelli belli: le persone che cantano dai terrazzi per darsi forza, le videochiamate con gli amici a distanza, le raccolte fondi per la ricerca, la scoperta del vaccino, la gioia quotidiana delle piccole cose.
Rimane, infine, la paura che qualcosa possa ancora mettersi tra noi e gli altri, ma anche e soprattutto la speranza, che è più forte di qualsiasi timore, di tornare a respirare liberamente e toccarci senza pericolo.
Tutto è cambiato ma qualcosa è rimasto lo stesso: il desiderio umano, collettivo e sincero di un abbraccio che non diffonde contagio, ma che sprigiona amore.