A 20 anni, nel 1901, venne dichiarato “abile di terza categoria” alla visita per la leva. Significava che veniva inserito nella riserva di coloro giudicati idonei al servizio militare, ma non chiamati a farlo per eccesso di giovani o per ragionevoli motivi di giustificazione. Iniziò con un foglio di congedo illimitato, la storia di Giuseppe Silicani, unica medaglia d’oro al valor militare del comune di Carrara. E quello non fu neppure il picco di maggior distanza rispetto all’onorificenza che si guadagnò sul campo. Dopo aver ricevuto il congedo illimitato che lo assolveva dagli obblighi di leva, Silicani, decise di cercar fortuna in Sud America e si trasferì. A Carrara, dove era nato, nel 1881, faceva il lizzatore, uno dei più duri e pericolosi mestieri che si potevano fare nelle cave di marmo. I lizzatori, per natura e per deformazione professionale, erano uomini rudi, possenti e forti, abituati a confrontarsi quotidianamente con il pericolo. Giuseppe Silicani era alto, per i suoi tempi, superando di poco i 170 centimetri di altezza ed era, soprattutto, uno coi nervi saldi e con la capacità di tenere tutto sotto controllo. A differenza della maggior parte dei suoi coetanei, era andato a scuola e sapeva leggere e scrivere. La vita che offriva la piccola Carrara agli inizi del ‘900 non presentava molte alternative al lavoro alle cave, poco sicuro e mal retribuito. Probabilmente per questo, il giovane Silicani entrò a far parte dell’esodo massiccio di italiani che vide circa 29 milioni di cittadini lasciare il paese e concentrarsi in buona parte proprio in Sud America. Non era facile ambientarsi in un altro stato, il cui popolo ti accoglieva con gli stessi pregiudizi e le stesse discriminazioni che, incredibilmente, esistono ancora oggi, a parti rovesciate, in Italia, ma Giuseppe Silicani ci aveva provato e stava consolidando la sua vita e il suo lavoro nel nuovo paese, quando gli arrivò, con grave ritardo, dovuto alla difficoltà dei trasporti dell’epoca, la chiamata in guerra dell’esercito italiano. Anzi, gli venne notificato che era stato dichiarato disertore, perché non aveva risposto nei tempi previsti alla chiamata partita il 7 febbraio 1916. Giuseppe avrebbe potuto restare dov’era, senza gravi conseguenze: si sarebbe evitato un viaggio lunghissimo e insidioso, e, soprattutto, la partecipazione a una guerra, che aveva ormai palesato essere tutto tranne che un intervento lampo, come in molti avevano creduto nel momento iniziale. Avrebbe potuto continuare quella nuova vita che lui stesso aveva scelto lontano dall’Italia, invece, non ci pensò un momento e si imbarcò immediatamente per far ritorno nel suo paese in guerra. Il 15 di novembre del 1916 Giuseppe Silicani era al presidio militare di Massa a offrire i suoi servigi alla patria. Forse era stata proprio l’esperienza in un paese straniero a rendergli più caro e importante quel valore, o, molto più probabilmente, il rispetto e la nobiltà d’animo erano un tratto della sua natura. Infatti, Silicani, dopo aver stupito tutti i graduati del presidio massese con il suo ritorno, letteralmente li ammutolì, quando rifiutò la milizia territoriale in terza linea – cioè un incarico lontano dal fronte – che gli era stata assegnata e chiese, invece, di essere ammesso in un reparto combattente. Per questo motivo, da disertore divenne addirittura “volontario”. Entrò nella Brigata Venezia dell’84° Fanteria di stanza a Firenze, dove cominciò l’addestramento di base per andare sul fronte, e, dopo aver conseguito il grado di caporale venne assegnato alla Brigata Ancona del 69° Reggimento Fanteria che combatteva sul Pasubio. Era l’inverno tra il 1916 e il 1917, sulle Dolomiti c’erano la neve e temperature bassissime e buona parte dei soldati italiani non aveva neppure la divisa invernale. A maggio la Brigata Ancona venne spostata sul Carso per prendere parte alla decima battaglia dell’Isonzo, nella quale l’esercito italiano aveva impegnato 430 battaglioni con l’obiettivo di sfondare la linea austo-ungarica e arrivare fino a Trieste. Il compito dell’Ancona era quello di tenere le posizioni vicine alla linea Flondar, per poter, da lì, proseguire alla conquista del monte Ermada. Ma l’operazione finì con una sconfitta e con la perdita di 3 mila uomini. Giuseppe si salvò e trasse dall’esperienza un vigore ancor più forte, tanto da chiedere di entrare nel battaglione degli Arditi che si stava costituendo proprio in quel momento. Gli Arditi erano tutti volontari con uno stato di servizio particolarmente notevole: non fu un problema essere accolto per Giuseppe. Il 24 ottobre del 1917, il giorno di Caporetto, Giuseppe era sul monte Fajti, in un avamposto dal quale doveva svolgere il ruolo di osservatore per le armi pesanti reggimentali, che fu tra i primi ad essere preso di mira dall’artiglieria austriaca. Giuseppe non scappò, non indietreggiò e non smise di difendere la postazione, mostrando calma e lucidità ai soldati del suo plotone e incitandoli a resistere e riuscendo anche ad aggiornare il comando su quanto stava accadendo. In quell’attacco furioso, una granata esplose a pochi metri di distanza da lui e un grappolo di schegge lo colpì in varie parti del corpo, provocandogli uno squarcio nella pancia. Venne soccorso e portato nell’infermeria da campo, ma le ferite, e gli scarsi mezzi della Croce Rossa, gli furono fatali e dopo dieci giorni morì. Vigile e consapevole fino alla fine, non smise mai di chiedere notizie della battaglia e delle condizioni dei suoi compagni. La notizia, dopo la più feroce battaglia di tutto il conflitto, che il nemico era stato, infine, respinto, gli diede l’ultimo palpito di gioia e la forza per dichiararsi felice di aver dato la vita per la sua patria. Il disastro di Caporetto costrinse i sopravvissuti a seppellire frettolosamente di morti senza riguardo per la loro identità e Giuseppe venne sepolto sul monte Fajti, dove aveva trovato la morte. Tuttavia, non fu più possibile identificare il suo corpo, quando i caduti di Caporetto vennero traslati nel cimitero monumentale di Redipuglia, dopo la fine della guerra. Non c’è una tomba, dunque, a ricordare la storia di Giuseppe Silicani, ma il suo coraggio è ricordato in una targa di marmo, affissa all’interno del liceo artistico Artemisia Gentileschi, sorto nel luogo in cui c’era la sua casa natale in via Verdi, che ai suoi tempi, era chiamata semplicemente lo Stradon.
Fonte: “1000 non sono tornati – I caduti di Carrara nella Guerra del 1915-1918” di Ezio Della Mea e Enzo Menconi.