Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz, il famigerato campo di concentramento dove trovarono la morte migliaia di persone. Per questo motivo, quella data è stata scelta per commemorare il giorno della Memoria dell’Olocausto. Una giornata per non dimenticare mai quanto avvenne all’interno dei lager tra il 1939 ed il 1945, quando non solo gli ebrei ma anche i rom, gli omosessuali, i disabili e i senzatetto furono deportati ed uccisi nei campi di sterminio per mano del regime nazista. Questa rubrica, è nata, infatti, per non dimenticare l’orrore. Per non scordare l’atrocità delle leggi razziali. E per commemorare, ancora e sempre, tutte le vittime dell’olocausto. Mi piace ricordare che, per fortuna, c’è ancora in vita qualcuno (pochi per ragioni anagrafiche) che è sopravvissuto a quegli orrori e ha preso l’impegno con la propria coscienza di raccontarli, così come hanno fatto tanti che oggi non ci sono più. Queste persone hanno tenuto in vita la memoria e l’hanno consegnata ad altri perché non sia dispersa, soprattutto perché si conosca quella verità che il sistema nazista tentò di occultare, cercando di eliminare ogni traccia. Dobbiamo essere consapevoli che spetta a ciascuno di noi raccogliere quelle testimonianze e tramandarle a chi verrà dopo di noi.
Tutte le vittime di quella follia ricordano la fame, lo spavento, la morte e, solo una parte di loro ricorda il ritorno. Un ritorno che non è mai diventato un vero ritorno, come si evince dalle storie che mi hanno raccontato i sopravvissuti, che ho avuto l’onore e la fortuna di incontrare negli anni.
Da loro ho compreso che il corpo era tornato, ma la mente era rimasta là, prigioniera del filo spinato.
La storia di Arturo Lazzaro Stagnari (1903-1986), che fu internato in Polonia nel settembre 1944, all’età di 41 anni, dopo un’azione di rastrellamento a Carrara, me l’ha raccontata il figlio Luciano: “In questo posto si entra vivi dal cancello principale ma si esce dal camino. Questa era una delle prime frasi che dissero a mio padre quando arrivò nel campo di concentramento. Ricordava che qualcuno gli aveva indicato il forno crematorio dal quale uscivano, senza interruzione, fiamme alte oltre un metro. Il fumo che usciva dal camino era spesso e nero e lui diceva che non avrebbe mai dimenticato l’odore di carni bruciate”. Il ritorno alla vita normale non gli fece mai dimenticare la fame, lo strazio delle carni, il freddo che gelava perfino il respiro, l’incubo della morte, le persone bruciate a mucchi, gli insulti, le umiliazioni, le bastonate, anche la sua fortuna di essere sopravvissuto, ma il ricordo delle atrocità a cui aveva assistito non poteva cancellarsi: “Ricordava un episodio terribile: il suo amico polacco, una mattina, mentre erano tutti incolonnati per andare al campo di lavoro, riuscì a strappare una manciata d’erba congelata per calmare i morsi della fame. Un kapò notò il gesto e con un badile si scagliò su di lui spaccandogli la testa, senza alcuna pietà, abbandonandolo a terra come un rifiuto. E mio padre ripeteva dentro di sé: ciao, amico mio, mentre continuava la marcia e piangeva. Ciao amico mio”.
“Mio padre – continuava il figlio Luciano – raccontava che non avrebbe più voluto soffrire la fame. Mai più la fame, mai più, ripeteva sempre. E divorava di tutto, famelico. Il cibo divenne per lui una vera ossessione. Mai più la fame, mai più, e il pianto accompagnava le sue parole. Al campo restò per un anno intero. Dodici mesi di silenzio, un periodo infinitamente lungo tanto da far credere alla famiglia che non sarebbe più tornato. Prima della deportazione, mio padre amava la gente, ma dopo il suo ritorno la presenza di persone sconosciute lo spaventava e lo rendeva diffidente. Si metteva sulla difensiva e diventava nervoso, aggressivo. È passato tanto tempo, ma non potrò mai dimenticare i suoi incubi notturni, che culminavano in grida disumane. Popolavano la sua mente ogni notte e furono il suo tormento. Il terrore non lo abbandonava, nemmeno nel letto di casa sua. Il dramma, il dolore, le atrocità vissute nei campi di sterminio avevano segnato profondamente la sua vita, e anche la mia. Questo fu, in realtà, il suo ritorno”.
È giusto raccontare, è necessario ricordare per poter sperare che una simile tragedia non possa ripetersi mai più. Dio muore laddove c’è indifferenza e dolore. Dio risorge nelle testimonianze di chi ha lottato per consegnarci un mondo migliore.
La fame, il freddo, le percosse, il lavoro pesante fino all’instupidimento segnano una rottura con tutto quanto rappresenta la civiltà. Giovanni Fruzzetti, fu deportato ai confini con la Francia e costretto ai lavori forzati nelle miniere di carbone: anche la sua storia è una testimonianza. Ricordava che i prigionieri che non collaboravano o che non che reggevano i duri regimi dello sforzo fisico, venivano fucilati sotto gli occhi degli altri. “Volevano darci l’esempio – diceva Fruzzetti – per dimostrare che non scherzavano. Più volte fui torturato e picchiato a sangue perché non avevo più la forza di caricare il carbone sui carrelli. Ci calavano dall’alto lungo lo stretto cunicolo della bocca della miniera, ammassati dentro una gabbia come animali. Sento ancora il rumore metallico di quei carrelli, di quei binari neri. Nelle viscere di quell’inferno nero eravamo costretti a 14 ore di lavori forzati. Come boia spietati, i tedeschi passavano a controllare e ci colpivano ripetutamente sulle braccia con il nerbo di bue. Stremati dalla stanchezza, dalla fame e dal dolore ci riportavano in superficie e ci concedevano cinque minuti di tempo per lavarci, fuori. Utilizzavamo la neve, poiché l’acqua era coperta da una spessa lastra di ghiaccio. Nelle baracche, tra pidocchi e parassiti, senza poterci lavare, si era diffusa l’epidemia del tifo e la mattina, non tutti rispondevano all’appello. Morivano nel sonno, malati, stremati dai patimenti, e finivano ammassati sul mucchio per essere inceneriti”.
Tra loro c’era anche chi aveva ancora la forza di sognare il cibo; nel diario di Bruno Cimoli, (classe 1927), deportato nei campi all’età di 17 anni, si legge: “Facevamo circa 20 chilometri al giorno. Il mio amico Tavan era un conoscitore di erbe di campo e dopo averne raccolte tante da riempire le gavette, al momento di mangiarle condite solo con un po’ di sale, iniziava a consolarmi dicendo che in quel momento, quello che stavamo mangiando erano gnocchi al ragù. Mastica, mastica, senti come sono buoni e chiudi gli occhi mentre mangi! La fame era tale che ci credevo davvero e alla fine gli dicevo che mi erano piaciuti moltissimo! E lui mi prometteva che l’indomani avrebbe preparato le lasagne al pesto. Che roba la fame!”.
Cosa ha imparato il mondo dopo 77 anni dalla fine di Auschwitz? Oggi il mondo si commuove di fronte alle camere a gas dei campi di concentramento nazisti. Mi auguro che voltarci indietro, guardare agli orrori del passato, possa servire ai potenti per comprendere meglio la realtà e superare il male che comunque si ripresenta, sotto spoglie diverse. Il mondo non ha impedito il ripetersi della tragedia, degli orrori, dell’odio. L’Olocausto, è diventato arte, letteratura con lo scopo di non dimenticare. Nelle moltissime memorie raccolte e pubblicate continuano ad aleggiare le accuse di quel tempo al resto del mondo che rimase inerme, a quelli che allora erano fuori dai lager ma non intervennero, agli alleati che non bombardarono subito le linee ferroviarie che portavano ai campi, e alla Chiesa che fu troppo timida nelle proteste. Tutti sapevano ma nessuno si interessò veramente. E anche oggi sembra succedere la stessa cosa: tutti sanno ma a nessuno interessa. Nel 2022 il mondo si nutre ancora di odio, lasciando annegare in mare uomini, donne e bambini in fuga da condizioni disumane, in oceani di indifferenza.
La Giornata della Memoria deve far riflettere su quello che è accaduto e fare in modo che non debba più ripetersi. I potenti non possono commuoversi sullo sterminio nazista e continuare a foraggiare le guerre che ancora insanguinano il mondo. Il messaggio che voglio lasciarvi, oggi, è che la pace viene costruita da ciascuno di noi, giorno dopo giorno. Mantenete viva questa fiamma, sentinella del nostro futuro. Vi invito a unirvi all’appello di 50 premi Nobel, che chiedono la riduzione delle spese militari per recuperare risorse e contrastare i veri problemi globali: quali la crisi climatica e sanitaria. Invitiamo tutti a porre la firma on line sull’appello Global peace dividend.