Mia madre aveva due sorelle. In verità sarebbero state quattro, ma due morirono di spagnola quando erano piccolissime, entrambe nello stesso giorno. Quelle che sopravvissero erano Gemma, nata nel 1910 ed Elena, nata nel 1913. Gemma, subito dopo la guerra, si trasferì a Casale Monferrato, rimanendo, comunque, sempre un punto fermo per la famiglia. Elena era alta e robusta, in un meraviglioso tempo in cui “dove c’è grassezza non occor bellezza” ed aveva un bellissimo viso, molto dolce. Vezzosa, amava lasciare che un minimo orlo di pizzo della sottoveste le uscisse dal vestito: le tipiche donne che sapevano lasciare all’immaginazione, senza bisogno di mostrare. Fu la zia Elena ad insegnarmi come immergersi nel profumo senza impregnarsi troppo. Lei adorava le mise da sera: ciabatte, camicie e vestaglie da notte a profusione. Era semplicemente adorabile. Le piaceva venire a casa nostra e spalancare la porta d’ingresso (praticamente sempre aperta) e lanciare caramelle e cioccolatini sulle scale in modo che noi bambini ci precipitavamo a raccoglierle. Era un’appassionata di musica dall’operetta – Cin-Ci-Là la sua preferita, ma anche “moderna” con Rose rosse per te… Mi piacevano tantissimo i suoi detti: “Parere e non essere è come filare e non tessere“, “Ognun col sò ì fa quel che i vò“.
Zia Elena era anche una magica cuoca: per questo mi rivolsi a lei per fare uno “scherzetto” agli amici del mio fresco sposo. Eravamo appena arrivati in Via Nuova, dopo essere stati per un breve periodo ospiti proprio da zia Elena, quando in un pomeriggio al Principe, gli uomini cominciarono una noiosa litania: “A nì en mica pù le done che al san far da magnar a mod’r. La polenta e stocafiss an la san propri ‘mbastir!” (Non ci sono più le donne che sanno fare da mangiare per bene. Polenta e stocafisso non la sanno proprio imbastire). Una litania ripetuta una e due e tre volte… alla fine sbottai: “Ma com set pesi! Sab’t v’nit a cà nostra che a v’ fai polenta e stocafiss! Oh” (Ma come siete pesanti. Sabato venite a casa nostra che vi faccio polenta e stocafisso). Mio marito rimase con gli occhi spalancati. Sapeva bene che avevo difficoltà anche con un uovo al tegamino. Cosa che dura ancora oggi, per la verità. Ma io avevo l’asso nella manica: la zia Elena! Lei era famosa per imbastire tavolate con prelibatezze speciali. Mitici i suoi cappelletti e i suoi muscoli ripieni. Era la depositaria dei segreti più nascosti di tutti gli stoccafissi mondiali. Spiritosa com’era, zia Elena aderì immediatamente alla messa in scena. La sala e la cucina erano, praticamente, i soli due ambienti già sistemati all’epoca e facevano la loro figura. Usai la tovaglia ricamata da corredo d’ordinanza (allora si usava così), i piatti, le posate, i bicchieri arrivati come regali di nozze e scelti con cura per l’occasione. Almeno l’apparecchiatura mi riusciva, una volta. La zia venne, cucinò e sparì. Arrivarono gli ospiti e io con un bel “gumbialino” (grembiulino), anche quello dono della zia che sapeva pure cucire, mi presentai a servirli quasi con umiltà. Chi mi conosce può immaginare il sorrisetto sarcastico che, tuttavia, non riuscivo a trattenere. Essi assaggiarono uno stoccafisso perfetto, che si attaccava al palato come deve essere, e una polenta divina. Ne rimasero estasiati, stupefatti. Alla fine del pranzo, qualcuno, guardando con invidia mio marito gli disse: “Ma com t’à fat a piar ‘na perla cusì?!?!” (Ma come hai fatto a prendere una perla così?) E Carlo che non teneva neanche il semolino gli rispose: “P’cat che la perla a l’abi setanta ani” (Peccato che la perla abbia settant’anni).