Poco dopo essere arrivati nella più comoda casa di Vicolo della Ruota, tra l’allora via Garibaldi e via Roma, la mia gambetta sinistra cominciò a darmi problemi. Sentivo dolore nel salire le scale. Ivano Viti, cugino amatissimo di mio padre, era pediatra e capì subito che c’era bisogna di accertamenti immediati. Prese appuntamento all’ospedale Gaslini di Genova, dove operava il professor Giuntini, noto luminare dell’epoca. Fu il professore in persona a visitarmi e a decidere per un ricovero urgente. Andammo di corsa a prendere un pigiamino e poi, via, a Genova. Mia madre si fermò con me, lasciando la mia piccolissima sorella Cristina alle cure della zia Elena. Fu uno sconforto per tutti. Non so come mai, ma c’era una sorta di convenzione con la mutua (l’attuale Asl) per cui io e la mia mamma avemmo diritto ad una camera tutta nostra, con tanto di bagno. Era già qualcosa. Io ero in seconda elementare e, per una bambina di quell’età, la cosa più importante era di certo la vicinanza della mamma, specie in un luogo dove intuivo che inevitabilmente avrei sofferto. Per me, avere la mamma vicino, era tanto. Mi operarono alla gamba sinistra quasi in urgenza. Un gesso sconvolgente: in pratica, ero immersa nel gesso dalla vita in giù e tutte le punture non potevano che essermi fatte nelle braccia. Ricordo benissimo il dolore che sentivo nel piegarle. Anche in quella occasione il popolo del Bugliolo si ricordò della sua principessa e, a turno, in tanti vennero a trovarmi. Che aveva la macchina portava chi non l’aveva e, tutti, arrivavano con un pensiero per me. Mi commuovo ancora a pensarci. Il ricovero fu a novembre e, al successivo Natale, mi fu concesso di passare qualche giorno a casa. Venne a prendermi lo zio Manrico con mio padre. Allora non c’era l’autostrada e, da Genova, si doveva fare il Bracco. Mi posizionarono nel sedile posteriore con tutto il mio gesso, coperta da un caldo plaid. Certe cose ai bambini rimangono impresse e io ricordo benissimo di essere rimasta abbagliata dalle luci che ornavano le case e, chissà perché, dai numerosi nanetti e le tante Biancaneve posizionate nei giardini, che riuscivo a vedere dal finestrino. Purtroppo al rientro in ospedale non fu più possibile avere la camera con la mamma. Non oso immaginare lo strazio di mia madre nel lasciare la sua piccola. Mi piazzarono nella camerata numero 13 e la mamma andò a pensione da due signore molto accoglienti. Ma io, la notte, avevo paura e piangevo e le suore venivano a zittirmi in malo modo. Fu veramente brutto tanto che ancora adesso io ho il terrore del buio. Una volta riuscì a venirmi a trovare il mio nonno Francè, da solo, in treno: lui era fatto così e il suo legame con me era davvero speciale. Si era portato un gran bel “panone” con il salame, che mangiai io, forse non tutto, e lui si accontentò della minestrina che passava l’ospedale. Tutti i sabato veniva mio padre che, sempre, mi portava quelle cose che, per me, erano davvero preziose. Una volta persino un mangiadischi e il disco della Pavone: “La partita di pallone”. Anche le mie compagne di camerata aspettavano mio padre, perché lui era era uno spasso per tutte e “La partita di pallone” venne ballata da tutte le bambine che erano in grado di farlo. Io no, ovviamente: ero ancora imprigionata nel gesso. In seguito, poi, ci fu la drammatica scoperta che l’operazione non era andata per il verso giusto e, dopo molto dopo, compresi che ne avrei dovuto subire un’altra perché il luminare aveva sbagliato. Fu molto duro da accettare. Mi dicevano: succede, ma io mi domandavo “proprio a me?”. Restai al Gaslini da novembre all’aprile successivo: un tempo lunghissimo per una bimba piccola. Ma il calore delle visite dei miei meravigliosi builesi ancora mi fa commuovere. P’rchè’l Buil ì er la mè cà! ( perché il Bugliolo era la mia casa).