Il Natale non è più un evento: ormai anch’esso sacrificato sull’altare dell’apparenza e della memoria del nulla. Sono svaniti i sentimenti, i profumi, i sapori, il calore. È rimasto solo un forte richiamo al consumismo esasperato e alla mercificazione dell’esistenza. Oggi, il Natale è solo un monumento ad un grande sentimento tradito. In passato, invece, era un vissuto popolare comune alle famiglie ricche e povere. Per queste ultime il Natale era una pausa lieta rispetto alle incertezze e agli stenti del vivere quotidiano. Era il giorno in cui, finalmente, si mangiava tanto: ” Natal i è ch’l dì ch a s’ magn tant” (Natale è quel giorno in cui si mangia tanto). In questa stringata ma efficace frase, si può ravvisare il particolare concetto del “carpe diem”, del godiamo oggi “che del doman non v’è certezza”. Una filosofia di vita che ha avuto origine dall’incertezza e dalla precarietà del duro lavoro legato alle cave e al marmo: i cavatori partivano all’alba e sapevano che nulla avrebbe garantito il loro ritorno: “l’attimo non colto, l’attimo maledetto” era sempre presente. Il Natale era la festa dell’anima che si evolveva anche a livello del corpo, un’ambivalenza tra sacro e profano, che ritroviamo anche nel simbolismo, legato a questo giorno, nella tradizione di bruciare il ceppo di Natale nel camino: ”L zoch” (il ciocco), o nel rituale di nutrire il fuoco con il cibo della festa, “dar da magnar al foch”. Il ceppo, nel suo ardere, ricordava la festa pagana del sole, perché nel periodo a ridosso del 25 dicembre cade il solstizio d’inverno, cioè il giorno più corto dell’anno, che segna anche il momento in cui le giornate ricominciano ad allungarsi, infatti si dice: ” Da Santa Luzia a Natal quant ad’aralz un pe’ ‘l gad” ( Da Santa Lucia a Natale, quando alza un piede il gallo). Non a caso la Chiesa istituì in questo periodo la festa dedicata a Santa Lucia, protettrice della vista e della luce. Anche dare da mangiare al fuoco era un vero e proprio rito del quale il capofamiglia era il supremo sacerdote. Con gesti precisi e ripetitivi si gettava nel fuoco un po’ di zuppa, una frittella, una fetta di focaccia, qualche noce, le bucce profumate degli agrumi ed infine un po’ di vino. Legata al culto del fuoco, questa tradizione, rassicurava la famiglia sul fatto che calore e cibo non sarebbero mai mancati. In ogni casa, in ogni famiglia, ci si preparava a festeggiare degnamente il Natale. Spiritualmente ci si avvicinava con il pranzo della vigilia, giornata nella quale ci si asteneva dal consumare qualsiasi tipo di carne. I piatti che rappresentavano la tradizione, erano come accade un po’ ovunque, legati ai prodotti del territorio. Il pranzo della vigilia era una zuppa rustica di pane raffermo, condita con olio crudo, insieme a cavoli e fagiolo dolico (fagiolino dall’occhio , unico fagiolo presente nel mondo Mediterraneo già nel 180 avanti Cristo, conosciuto da Greci, Romani, e coltivato in abbondanza nella Liguria storica e ancora presente nella preparazione della nostra polenta incatenata). La cena era composta da più portate: cavoli con fagiolini dall’occhio, anguille nere in umido con bietole, olive fresche marinate, frittelle di farina di castagne con ricotta e frittelle di grano e, per dolce, la focaccia con pinoli, noci, semi di finocchi, abbondante uva passa al posto dello zucchero, utilizzato solo in epoca moderna. La consuetudine la voleva inzuppata in un bicchiere di buon vino dolce locale. In quasi tutte le famiglie le donne, appendevano nelle soffitte o cantine arieggiate delle grosse pigne d’uva che man mano si essiccavano fino ad essere pronte per le festività natalizie.Un’arte, questa, che insieme all’essiccazione casalinga dei fichi,è andata perduta. La cena della vigilia si concludeva con noci, fichi secchi e nocciole. Nel 1700 fa la sua comparsa, sulla tavola di Natale, il baccalà, che, nelle famiglie benestanti, prende il posto delle anguille pescate in loco. Arrivava da Bergen in Norvegia: la marca più richiesta dalle donne Carraresi, era la “Ragno” della qualità Labrador, molto superiore perchè più grassa e tenera.Nello stesso periodo, anche per la zuppa è in arrivo un nuovo elemento: il fagiolo bianco piatto “Piattella Pisana”, detto localmente “Fasulina,” che andrà a soppiantare il fagiolo dolico.
La tradizione emiliana dello zampone e del cotechino, già acquisita dalla borghesia locale di fine ottocento, irromperà, poi, sulle tavole, infrangendo in modo clamoroso il precetto religioso dell’astensione dal cibarsi di carne. Fanno la loro comparsa anche gli alcolici come rum e mandarinetto, usati per la preparazione del ponce che, soppianteranno il tradizionale ed aromatico vin brulé.
L’apoteosi del gusto e del vero godimento era il tanto atteso pranzo di Natale: crostini di fegatini di pollo come antipasto e tordelli di carne di maiale arricchiti di barbisa ( guancia di maiale) per renderli più morbidi e gustosi. La pasta dei tordelli veniva tagliata con un grosso bicchiere e poi chiusa con i rebbi della forchetta. Il condimento era il sugo di cottura. Nel secolo scorso il tordello si è evoluto ed ha accolto nel suo ripieno anche carne di vitello, mortadella di Bologna, mentre il condimento è diventato un ragù preparato a parte. Le pietanze prevedevano l’agnello in forno con patate, ma anche tacchino “in dialetto chiamato pit”. Chi aveva un orto o un piccolo spazio, lo allevava: a novembre si cominciava “a ‘mpitarl,” (impitarlo) cioè a nutrirlo in maniera forzata con ghiande, noci di scarto e castagne, per rendere le sue carni più saporite. Un modo semplice, per avere carne a costo zero per il giorno di Natale. Al tacchino si accompagnava il fritto di verdure di stagione: i cardoni “gobi”, le barbe di prete, il sedano e i finocchi che potevano essere uniti anche al galletto o alle costolette d’agnello. Poi c’era la focaccia, il vino dolce, noci, nocciole, fichi secchi accompagnati da abbondanti libagioni a base di vino locale. L’abbondanza delle preparazioni del pranzo, prevedevano un’eccedenza, che doveva servire quale cena per la sera di Natale.
Il giorno dopo, la grande fame era saziata e Santo Stefano portava, come primo, il brodo di gallina odi cappone con i cappelletti, che non sono gli stessi che vediamo oggi: i cappelletti carraresi, come i tordelli, venivano tagliati con un piccolo bicchiere e risultavano quindi tondi e senza buco, grandi abbastanza da riempire la bocca “da l’mpirs la boca e s’ntirli sot ai denti” (da riempirsi la bocca e sentirli sotto ai denti) . Come secondo: gallina o cappone lessati, e, in una società dove lo spreco non era ammesso,il collo di questi ovini veniva riempito a mò di pancetta, tagliato a fette sottili,e servito quale pietanza insieme alla salsa verde con contorno di insalata. Anche le zampe venivano bollite insieme al resto, ed erano contese dai più piccoli che le spolpavano in religioso silenzio. Seguivano la focaccia, la frutta secca, i mandarini, le arance e ancora tanto vino. Nella cena di Santo Stefano faceva la sua comparsa il coniglio cucinato in umido con le olive fresche “p’r spuzars”, cioè per sollecitare, di nuovo, il gusto al cibo che aveva saturato pance e palati. Il 27 dicembre la vita riprendeva il suo corso: le festività natalizie erano terminate ma, nel minestrone di verdura previsto, faceva la sua comparsa un elemento di risulta del pranzo di Natale, cioè l’acqua di cottura dei tordelli,che era saporita e grassa e veniva utilizzata quale base per il minestrone secondo il must del non sprecare nulla.
Una forma di riconoscimento alla memoria, lo merita la Focaccia Carrarina, tradita ingiustamente negli anni 50 del novecento. La gloriosa, gustosa, fragante “fugaza” (focaccia), non solo erail dolce di Natale, ma era anche un segno della riconoscenza che i vecchi bottegai carraresi offrivano ai loro clienti per premiarne la fedeltàe” dar le bone feste” ( dare le buone feste, cioè fare gli auguri di Natale).
Oggi, dolci di ogni tipo imperversano sulle tavole di Natale con la loro ingombrante presenza. La buona, vecchia focaccia, andava preparata nel caldo fulcro della casa, “la cuzina”(la cucina), senza fretta, con più giorni di lavorazione manuale, lontana dai clamori di un Natale-mercato, sempre più povero di valori veri e semplici. Un mercimonio che sta cancellando ed omologando tutte quelle diversità regionali che rappresentano un valore incommensurabile.
© Foto di Vinicia Tesconi