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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Alle cave con un pezzo di pane con la trippa: il primo fast food della tradizione

La trippa è il rumine e lo stomaco dei bovini macellati, ed è composta di quattro parti con nomi che variano da regione in regione. La parte più spessa è il rumine, chiamato comunemente croce, in dialetto, assume il nome di “Cróza o tripa lissa” ( croce o trippa liscia) è composta da un grande sacco che rappresenta l’80 per cento dello stomaco. La seconda parte è chiamata reticolo, detto anche cuffia, e in gergo dialettale carrarino: “scufia o tripa spugnosa” ( scuffia o trippa spugnosa). Il terzo e ultimo dei pre-stomaci e il foiolo detto “zént pède o faiòl” (cento pelle o foiolo). Il termine faiòl, faiolón, a Carrara, rappresentava un vero e proprio grave insulto. Alcuni, hanno ricercato l’origine di questo insulto nel lèmma dell’antico Italiano “faglia”, ossia errore, colpa, per definire una persona disonesta. L’accezione offensiva del termine riferito a una persona si basa sul paragone tra il soggetto e la parte più sporca e abominevole dell’animale, la trippa appunto, intesa malamente come intestino (quindi contenitore di escrementi). In dialetto ‘l faiòl è il foiolo che corrisponde a un termine ormai in disuso: budèd, bud’dón, bud’dóna ( budello, budellone, budellona). La mia bisnonna Domenica, mi raccontava che, una volta, il termine foiòl risultava la versione colta, usata dalle classi abbienti, mentre il più popolare faiòl era usato dalla classe subalterna. Infine la quarta parte che è lo stomaco vero e proprio: l’abomaso, conosciuto anche come lampredotto, in dialetto definito “tripa mulacina,” in riferimento al suo colore scuro, quasi nero, simile a quello degli “attributi” del mulo.

Si tratta di termini indubbiamente coloriti e fantasiosi questi, che, un tempo, erano comunemente usati dai carrarini. Le donne di oggi, non usano quasi mai i termini dialettali per chiedere al macellaio le varie parti della trippa, soprattutto per il fatto, che essa, viene venduta nei supermercati, quasi sempre già pulita e bollita, pronta per essere cucinata. Un sistema, sicuramente, adatto a una cucina dai tempi veloci, ma che al gusto della trippa di un tempo non assomiglia per niente.

La trippa cruda, cotta in casa, mantiene la giusta consistenza, quella già cotta, come si dice in gergo “adè senza nèrb” (è senza nerbo) ovvero è floscia, snervata. A Carrara è esistita una vera e propria civiltà della trippa. Cucinata nelle famiglie per cena, una parte era posta all’interno “d’l Cantón d pan” (del cantoncino di pane) che i cavatori portavano al lavoro il giorno successivo. Preparata in umido color bianco, oppure rosso, se si sceglieva la versione con l’aggiunta di concentrato di pomodoro; a volte insieme alle patate quale rinforzo, per poter saziare gli stomaci della tanta prole, oppure consumata bollita e poi condita con olio e pepe.

Era cucinata da quasi tutte le “cantiniere” di Carrara, con l’aggiunta di un bel po’ di peperoncino piccante che invitava a bere una gran quantità di cavallerie. Per le famiglie operaie, rappresentava spesso e volentieri la sola carne che arrivava in tavola, dato il suo costo abbastanza modico.

L’uso della trippa in cucina è citato dai Greci, i quali, l’arrostivano sulla griglia, aromatizzandola con foglie di alloro. I Romani, che nell’arte della norcineria erano molto esperti, ne facevano salsicce gustose e molto apprezzate. Nel XIV secolo Umberto II, delfino del Viennese la fa iscrivere nel menù del lunedì e mercoledì, specificando di volerla semplicemente bollita. Nel ‘400 è Michele Savonarola a prendersi l’onere di descrivere che deve essere cotta con brodo, zenzero e sale, ma la consacrazione della trippa si ha nella commedia popolare fiorentina del novecento. L’uso popolare di consumare la trippa, nasce dall’abitudine, nelle varie corti, di regalare al cuoco di corte tutti gli scarti e le interiora degli animali cucinati per il signore. Così i servi privilegiati dei potenti vendevano gli scarti ai plebei diseredati che con la fantasia, dettata dal bisogno, si cimentavano nelle più svariate preparazioni. Nel 1687 il Tanara la cita nel suo “L’Economia del cittadino in villa”. Il Boccaccio racconta che le prime trippe furono mangiate da Calandrino di Pistoia. Le interiora utilizzate in cucina sono un patrimonio anche di altre regioni italiane, tanto che nacque una professione ben distinta da quella del macellaio: accanto ai “beccari,” i macellai riuniti in corporazione ( a Carrara resta il toponimo Beccheria), esistevano anche i “trippari”. A Firenze, ancora oggi, esistono i caratteristici trippai ambulanti che con i loro carrettini, in prossimità di alcune piazze o mercati, vendono la trippa e i panini con il lampredotto (vedi mulacina), bagnati nel brodo di cottura, salati, da mangiare caldi al momento: vero fast-food della tradizione.

Ricetta della trippa

Dosi per sei persone
Ingredienti:
un chilo e 200 grammi di trippa di vitello mista: croce, cuffia, centopelli, lampredotto
50 g di lardo
50 g di burro
5 cucchiai di olio extravergine di oliva
due spicchi d’aglio
una cipolla
due carote
una costa di sedano
prezzemolo
rosmarino
peperoncino
origano
pomodori pelati
un cucchiaio di concentrato di pomodoro
sale
una fetta di limone
mezzo bicchiere di vino bianco (facoltativo).

Preparazione:

Raschiare ben bene la trippa, lavarla, porla dentro una capace pentola e coprirla con acqua abbondante. Aggiungere mezza cipolla, una carota, metà costa di sedano, il rametto di rosmarino, qualche foglia di prezzemolo e la fetta di limone, salare e porre sul fuoco a bollire per almeno tre ore.

A cottura, scolare la trippa, lasciarla raffreddare poi, tagliarla a strisce sottili. In una casseruola di terracotta versare l’olio il burro e il battuto di lardo, aglio, cipolla, prezzemolo, carota, metà costa di sedano, una cimetta di rosmarino ed il peperoncino. Rosolare il trito poi, aggiungere la trippa continuando a girare per alcuni minuti, aggiungere mezzo bicchiere di vino bianco, farlo evaporare, unire i pomodori pelati passati o schiacciati con la forchetta, il cucchiaio di concentrato, il brodo di cottura della trippa, un pizzico di timo oppure di origano. Moderare la fiamma del gas, girare man mano la trippa in modo che non si attacchi al fondo. Durante la cottura, se occorre, aggiungere il brodo della trippa. Sarà pronta quando il sugo sarà ben ristretto, e la trippa sarà diventata tenera e appiccicosa alle labbra. Servire condita con abbondante parmigiano, oppure, come vuole la nostra antica tradizione, con il pecorino stagionato, magari ‘l “romanésk”( romanesco).

Curiosità: a Carrara si è sempre affermato che, per cucinare una trippa che riesca a “pipa d kòk,” (pipa di cocco) si devono usare i tre condimenti: olio, burro, lardo.

© Foto di Vinicia Tesconi