Un padre che racconta al figlio la sua lunghissima vita, alla fine di un percorso fatto di sofferenze e gioie e alla fine di una estrema, faticosa malattia e il figlio che diventa custode e strumento di memoria raccogliendo la storia del padre e trasformandola in un libro. Adelmo Mosti è il padre che ha vissuto la guerra, la deportazione sotto ai nazisti, la Resistenza in terra massese. Elbano è suo figlio e l’autore del libro Vita di un uomo, edito da Ceccotti Editori, nel quale c’è tutta la storia di suo padre e della sua famiglia, così come Adelmo Mosti gliela ha raccontata prima di morire nel 2019 a 96 anni. Il filtro del racconto dal padre al figlio non fa che potenziare emotivamente la narrazione.
Adelmo Mosti, come tanti anziani, aveva sentito il bisogno di alleggerire il proprio bagaglio di vita, raccontando la propria esperienza nei campi di lavoro tedeschi. Ma allo stesso tempo aveva sentito anche il bisogno di raccontare la sua grande storia d’amore con la moglie Clara e l’affetto per i suoi figli e la sua famiglia. Una vita esemplare, semplice, anche se non priva di tribolazioni.
Il racconto di Adelmo Mosti, anche se riferito al periodo della guerra, non fa leggere la tragedia, la drammaticità del vivere. Adelmo racconta i suoi giorni, lo scorrere di una vita quasi normale. Parte dall’infanzia vissuta in una famiglia povera, ma dignitosa, e arriva fino alla sua giovinezza, all’incontro con Clara, alla lettera di chiamata alle armi, a cui fa seguito lo scambio della promessa d’amore e poi la partenza per il servizio militare. Due anni di vita nell’incognita del futuro, tra un campo e l’altro, un treno e l’altro, senza nemmeno sapere il perché di ogni spostamento. A sostenere il giovane è la speranza del ritorno a casa, il legame forte con i suoi familiari. In questo arco di tempo, nei campi nazisti, Adelmo non si rende conto di quello che sta accadendo tra italiani e tedeschi, e sopravvive alle circostanze, spesso per casi fortuiti. È lui stesso a dire al figlio: “Non sono stato, poi, così sfortunato” e gli racconta della volta in cui, seguendo un superiore, scambiò il suo posto con lui e questo venne colpito a morte. Oppure, di quando lavorava in una fabbrica e le guardie naziste, per due volte, sorpresero il suo amico che aveva sbagliato la miscela di un colore e davanti a tutti, lo presero e lo lanciarono dentro il forno, bruciandolo vivo. Adelmo Mosti dice che si sentiva fortunato “per non avere mai sbagliato e per essere stato sempre preciso nel lavoro”. E ricorda che le punizioni esemplari dei nazisti servivano esclusivamente a seminare terrore: la stessa strategia che utilizzavano nei campi di prigionia, la replicavano anche sul territorio italiano, soprattutto in terra apuana, dove c’era la linea gotica, massacrando i civili per dettare la strategia del terrore e indebolire la lotta della Resistenza.
Dopo la guerra, dopo le atrocità, una coltre di silenzio si stende su quegli orrori, con la voglia di dimenticare. Adelmo Mosti, al termine della prigionia nei campi nazisti, torna a casa. Familiari e amici organizzano una festa e la vita riprende nella sua quotidianità. È bella l’immagine dell’arrivo di Adelmo Mosti quando descrive lo stato di euforia della città di Massa a fine guerra. Una città bombardata, semidistrutta ma capace di tornare a vivere con la speranza di un futuro migliore. Adelmo Mosti ricorda che c’erano balli e canti ovunque, fiorivano le sale da ballo, per sdrammatizzare e riprendere a vivere. E poi c’era Clara, la sua fidanzata, che era rimasta ad aspettarlo. Adelmo Mosti e Clara scappano, secondo un uso che, all’epoca era frequente. Decidono di vivere insieme e si sposano. Un matrimonio fatto di promesse d’amore, in un paese distrutto fisicamente e moralmente, ma che rinasce con la voglia di ricostruire partendo dalla famiglia. E allora i tre figli: Franco, Elbano e Marosa e il pensiero che accomunava tante famiglie di allora: costruire una casa. E poi il dolore più grande della vita di Adelmo Mosti: la scomparsa della figlia Marosa.
Elbano ha scoperto tanti aspetti di vita del padre durante la malattia di quest’ultimo. “Trascorrendo tanto tempo con lui – ha spiegato – ho avuto modo di ascoltare il suo percorso di vita e di ripercorrere quel filo di storia raccontata dagli italiani sopravvissuti ai lager nazisti. Ho percepito in lui tanta sofferenza patita nei campi di prigionia e il messaggio forte della speranza di tornare a casa”. Tanti non sono ritornati dai campi di sterminio, alcuni sopravvissuti hanno portato nella tomba le sofferenze e le atrocità patite, altri hanno avuto il coraggio di raccontare, ricordando momenti bui di quel periodo di privazione della dignità umana.
Ho avuto modo di conoscere padre e figlio. Ho potuto farmi contagiare dalla commozione di Adelmo Mosti, mentre raccontava alcuni episodi della sua vita, e dall’emozione del figlio che ha ascoltato e ha voluto dare voce a un silenzio durato fin troppo tempo. È bello questo passaggio tra padre e figlio, questa consegna di memorie che diventa prezioso scrigno di tutta la famiglia, per non dimenticare mai i valori della pace e della libertà. Vita di un uomo è una semplice, grande memoria.
© Foto di Angela Maria Fruzzetti