È mancata. L’anno scorso, a causa della pandemia, per la prima volta nella memoria di quasi tutti i carraresi che non hanno vissuto la seconda guerra mondiale, la fiera di Sant’Andrea – la festa più importante del centro di Carrara – non è stata allestita, e la sua assenza ha reso ancora più malinconico il già triste periodo di divieti e lockdown.
Non che una fiera nel 2021 possa ancora avere tutte quelle attrattive e curiosità che caratterizzavano gli eventi di questo genere per tutto il 1900, ma un importante valore simbolico la fiera di Sant’Andrea lo ha sempre mantenuto: per tutti i carraresi era l’evento che apriva la stagione natalizia e che portava nel centro città una marea di persone.
Da anni, anche prima del Covid, la fiera di Sant’Andrea non era più così: tecnologie, globalizzazione, ritmi frenetici hanno tolto, man mano, alla fiera di Carrara le sue peculiarità. Le cose che vedevi una volta all’anno, le cose che si mangiavano solo alla fiera, sono diventate semplici voci nell’immenso catalogo della rete, dal quale si compra stando seduti in casa, da soli, attraverso internet, senza neppure scambiare un sorriso con il venditore, ma la potenza del ricordo dei fasti della fiera di Sant’Andrea continuano a renderla cara ai carrarini che, pur malinconicamente, ne passano il ricordo ai figli: “sapessi come era bello: per le strade si camminava a stento, facendosi largo tra la folla” e che, tutti, comunque, nel terribile 2020 si sono dispiaciuti perché non c’è stata la fiera.
Forse perché quella memoria, in realtà, viaggia da secoli: la fiera di Sant’Andrea nacque in epoca medievale per celebrare Sant’Andrea apostolo a cui era dedicata la chiesa principale dell’allora borgo di Carrara, quella che poi divenne il duomo. Curiosamente, ma neanche troppo perché la storia di Carrara è piena di contraddizioni simili, il duomo della città non fu mai dedicato al patrono dei carraresi, San Ceccardo, che pure in quel duomo riposa, e la festa religiosa e laica principale non è dedicata al patrono ma, appunto, al santo cui è intitolata la chiesa.
La fiera, con ogni probabilità venne istituita nel momento in cui la pieve di Sant’Andrea, la cui costruzione risale al 1100, venne nominata Insigne Collegiata di Sant’Andrea Apostolo, verso la metà del 1300. L’elevazione di una chiesa a Insigne Collegiata era una pratica in uso sin dal VI secolo dopo Cristo e consisteva nella creazione di un collegio di chierici che venivano chiamati canonici. In origine la attribuito a quelle chiese in cui la santa sede ha istituito un capitolo o collegio di chierici (membri del clero) definiti canonici ai quali spettava anche l’incarico di amministrare i beni donati alla chiesa. In origine la pratica era nata negli ordini benedettini per volontà dei signori feudali che avevano fatto costruire la chiesa, e che volevano garantirsi le preghiere per l’aldilà, mantenendo il monastero e la parrocchia mediante donazioni di terreni da coltivare. Nel 1300, invece, l’assegnazione del titolo di Insigne Collegiata spettava al papato e, oltre ai benefici economici, costituiva una investitura di solennità e prestigio che poneva la chiesa nominata in una posizione più rilevante rispetto alle altre. E, infatti, il titolo veniva conferito solo alle cattedrali e alle sedi di cattedre vescovili. Per la piccola pieve romanica del borgo carrarese, se pur, poi, ampliata nel corso del 1200 e arricchita dell’abside e del magnifico rosone gotico, il titolo di Insigne Collegiata fu sicuramente un evento degno di perpetua celebrazione. A donare la chiesa di Sant’Andrea all’abbazia del convento di San Frediano dell’ordine di Sant’Agostino dei canonici regolari lateranensi di Lucca fu il vescovo Gotifredo di Luni, che nella prima metà del 1100 controllava il territorio apuano. In seguito all’avvento dei Malaspina al governo di Massa e di Carrara, nel 1250, il duomo, che già era Insigne Collegiata, venne rinnovato sotto il controllo dello scultore Andrea Pisano. Un secolo più tardi cominciarono le prime celebrazioni in onore di Sant’Andrea.
Nel corso del 1700 papa Pio VI costituì, nella Insigne Collegiata carrarese, un capitolo secolare presieduto da un abate mitrato.
La fiera si è mantenuta per secoli e anche questa è una ragione dell’affetto che lega i carraresi a questa festa. Fino a pochissimi anni fa segnava la partenza delle luminarie natalizie e l’inizio dell’intenso lavoro dei negozi del centro. Durava due giorni, ma il terzo c’era ancora qualche bancarella presa d’assalto da bambini e ragazzi. Il 30 novembre, all’ora di pranzo, tutti si ritrovavano alla fiera con un panino con la porchetta in mano, ricordando i tempi bambini in cui non si vedeva l’ora di infilare la faccia nella nuvola appiccicosa dello zucchero filato, quando si teneva un palloncino a forma di coniglio legato al polso con il filo da imbastire e poi, regolarmente, lo si vedeva librarsi in alto nel cielo sopra la folla, perché il filo non teneva mai. Come un presepe di statuine scomparse, la fiera era popolata da personaggi fissi: il venditore di animali, quello che aveva un banco di oggetti antichi, quello che parlava al microfono e faceva uno show per piazzare piccoli elettrodomestici, il giocattolaio, il venditore di lupini, quello che faceva i torroni, i brigidini e il croccante, che inondava la fiera del suo odore tipico. Molti di questi non ci sono più e, se ci fossero, non troverebbero seguito e interesse quasi da nessuno. Resta l’odore delle nocciole tostate nel caramello mescolato a quello della porchetta e dei wurster coi crauti e, forse, la voglia di fare due passi nei ricordi.
La fiera è tornata: adesso è Natale, anche se qualcuno, fuori dal mondo, ha stabilito che non si dovrà più dire.
© Foto di Vinicia Tesconi