L’ultimo progetto in ordine di tempo è quello dell’apertura, all’interno della biblioteca comunale di Carrara, di una sezione dedicata alla letteratura di genere, la cui inaugurazione ci sarà venerdì 4 dicembre, ma l’impegno a favore delle donne di Francesca Menconi, presidente della commissione pari opportunità del comune di Carrara e responsabile del centro antiviolenza del Cif di Carrara, dura, in pratica quasi da una vita intera: da quando, ragazzina, cominciò a riflettere sul cambiamento significativo determinato dall’approvazione della legge sul diritto di famiglia. Francesca Menconi non ha mai abbandonato la lotta contro la violenza sulle donne e a favore della parità di genere ed è diventata una figura di riferimento nell’ambito delle tematiche legate alla condizione della donna.
Diari Toscani l’ha incontrata nella sede del Cif a Carrara.
Partiamo dall’inaugurazione della biblioteca di genere all’interno della biblioteca comunale di Carrara…
È un traguardo, quello del 4 dicembre, che rappresenta motivo di grandissimo orgoglio per la commissione pari opportunità del comune di Carrara. Ci tengo, fra l’altro, a sottolineare che è l’unica commissione pari opportunità della provincia. Nel 2019 abbiamo fatto una verifica presso tutti i comuni apuani per censire le commissioni e anche le deleghe alle pari opportunità e abbiamo constatato che, a parte quella di Carrara, non c’erano altre commissioni e anche che le deleghe non erano molte.
Come è nata l’idea di una biblioteca di genere accessibile a tutte le donne?
E’ nata dalla consapevolezza che la violenza sulle donne è una questione culturale, per cui siamo partite dalla cultura. La cultura si fa nel vivere quotidiano, ma anche negli enti istituzionali come le biblioteche e, da una nostra verifica, abbiamo scoperto che non c’era alcuna sezione dedicata a questo tema nella biblioteca della città, così ci siamo attivate. In effetti c’era stata una piccola biblioteca di genere già nel centro d’ascolto costituito nel 2003 che, poi, era stato arricchito dalla biblioteca del centro antiviolenza allestita dal Cif. Tuttavia, come commissione pari opportunità, abbiamo ritenuto importante che ci fosse proprio in biblioteca una sezione per la parità di genere con tutte le sue implicazioni e diritti.
Come avete creato la nuova sezione?
Abbiamo fatto un riesame dei titoli che potevano interessarci e poi abbiamo chiesto alle librerie della città se erano disponibili ad acquistare questi libri, comprandoli dal comune. Abbiamo fatto due cicli di acquisti nel 2020 e 2021 perché i titoli sono davvero tanti e adesso inauguriamo la sezione con circa un centinaio di testi, alcuni dei quali sono stati donati dalle autrici e una parte l’ abbiamo recuperata dalla biblioteca provinciale di Pisa che ha chiuso.
Come funzionerà la sezione della biblioteca di genere?
L’idea è quella di presentare libri e poi chiedere agli autori di lasciare una loro opera a disposizione della comunità in questa sezione che un bene pubblico. Abbiamo intenzione di preparare un calendario di presentazioni per fare in modo di dare massima rilevanza a questa disponibilità. I volumi della sezione, comunque sono stati catalogati e saranno visibili anche online.
Che tipo di libri contiene la sezione?
Ci sono libri di ogni genere: da quelli strettamente giuridici come quelli del magistrato Fabio Roia a libri per bambini sulla parità di genere.
Lei ha il polso della situazione sulla violenza di genere: come sta andando sul territorio locale?
Il nostro territorio è esattamente in linea con l’andamento a livello regionale. Ho partecipato in questi giorni alla presentazione dei dati dell’osservatorio della regione Toscana, di cui fa parte anche il Cif di Carrara dal 2010. Secondo l’ultimo report il territorio apuano è perfettamente in linea con i dati del resto della regione: c’è stata una leggera diminuzione degli accessi ai centri antiviolenza, ma, in effetti, la violenza è in qualche modo più grave. Sono aumentati esposti e denunce.
È cambiato qualcosa rispetto al passato?
La rete sta crescendo e c’è sempre più sinergia tra i vari soggetti cioè tra i centri antiviolenza, i servizi sociali, le forze dell’ordine e la magistratura. Questo è decisamente positivo. Non siamo più ai tempi in cui le donne non denunciavano perché erano convinte che le forze dell’ordine non le avrebbero ascoltate. L’episodio accaduto nei giorni scorsi a Carrara, quando una donna maltrattata dal marito è fuggita e si è rifugiata nella caserma dei carabinieri è notevole. Una volta non ci sarebbe mai andata.
Ma i dati relativi agli episodi di violenza sulla donne sono ancora molto alti…
Purtroppo è così e sembra quasi che non ci sia alcun tipo di deterrente per fermare questo problema. Le pene non spaventano gli uomini violenti anche perché molti, dopo aver compiuto gesti estremi sulle loro compagne, si uccidono. È un segno di grande disperazione. Per questo dal 2015 abbiamo iniziato a formare degli operatori per gli autori di violenza. Noi ci crediamo veramente molto in questo, perché questi uomini, che non vanno giustificati, tuttavia non trovano ascolto da nessuna parte. Si ritrovano soli, pensano che la vita sia impossibile senza questo senso di possesso forte nei confronti della compagna e dei figli, a volte in maniera terribile. Non sono pazzi, ma non hanno avuto un’educazione su questi temi per cui non sono consapevoli e non sono capaci di gestire la rabbia. Pensano che non ci sia via d’uscita e arrivano a questi punti estremi che sono deliranti.
Nonostante le leggi volte a tutelare le donne vittime di violenza, quest’ultime, dopo la denuncia finiscono per dover vivere con molte limitazioni e nel costante timore che il loro stalker le avvicini anche se diffidato dalla legge. Alla fine, tra lo stalker e la vittima, la persona che deve cambiare il suo stile di vita è proprio la vittima. Perché questa anomalia?
Purtroppo i tempi della giustizia troppo lunghi e anche una certa ipocrisia fanno sì che le vittime subiscano anche una ri-vittimizzazione secondaria. La giustizia è lunga, a volte ingiusta e, in casi eclatanti, anche folle. Non si può chiedere di aspettare un anno o due anni per avere un processo a una donna che vive nel terrore. Anche nel caso in cui l’autore della violenza sia in carcere, può capitare che la donna non si ala sicuro perché oggetto della vendetta dei famigliari del suo aguzzino. La scelta di denunciare non sempre è compresa e vista di buon occhio dalla gente. Questo lo verifichiamo anche con la cerchia amicale della donna che la sostiene quando la vede vittima, umiliata e trattata male anche in pubblico, ma che, poi, di fronte a gesti di violenza più grave e alla conseguente denuncia della donna, finisce per empatizzare con l’uomo tratto in carcere, arrivando, a volte a colpevolizzare la stessa vittima per aver ecceduto nelle misure di difesa scelte per tutelarsi.
La tendenza a voler attribuire alla donna responsabilità nell’aver innescato la violenza che la colpisce sembra non passare mai…
No. Nei centri antiviolenza ribadiamo sempre questo concetto: a una donna stuprata o vilipesa o insultata si chiede sempre come era vestita quando è accaduta l’aggressione e perché si trovava nel luogo in cui è stata aggredita. A un uomo che viene derubato dell’orologio perché tiene il braccio fuori dal finestrino nessuno chiede perché stesse facendo questa ostentazione che ha provocato il furto. Il pregiudizio, anche nei casi di stupro, sull’idea del “se l’è andata a cercare” è ancora molto forte e non è solo una prerogativa maschile.
Nessuna solidarietà femminile, insomma…
Questo è un concetto che in realtà non esiste. Esiste l’amicizia tra le persone, anche tra uomo e donna, che possono portare a termine progetti basati su interessi e percorsi comuni. Ma la solidarietà femminile non c’è anche perché le donne sono molto competitive. Questo forse deriva dalla competizione atavica volta ad assicurarsi il proprio uomo, ma, di fatto, il risultato è che sono assai più competitive le donne degli uomini. Per quanto questo, non sia sempre un dato negativo. Nel caso dei pregiudizi sulle donne, però, spesso provengono dalle donne stesse. Si giudica il modo di vestire, le scelte di vita, il comportamento, ma, in verità, le donne dovrebbero essere libere di fare ciò che preferiscono e ciò che le fa stare bene. L’importante è che nessuno le obblighi a fare cose che non sentono.
Lei si occupa di queste tematiche da anni. Come è arrivata in questo mondo e perché?
La mia prima riflessione sulla condizione delle donne avvenne nel 1975, quando avevo 12 anni e venne approvata la legge su diritto di famiglia. Ricordo che in casa ne parlavamo e poi il fatto eclatante che, all’improvviso, a scuola, tutte le professoresse cambiarono cognome, passando da quello del marito, con cui erano conosciute fino ad allora al loro. Più tardi, subito dopo essermi sposata all’inizio degli anni ’90, entrai a far parte di un’associazione culturale formata e dedicata solo alle donne e ricominciai ad approfondire le tematiche sulle donne. In quel contesto conobbi Carla Poggianti che nel 2009 fondò il centro d’ascolto del Cif e mi chiese una collaborazione tecnica relativa all’organizzazione degli eventi e alla veste grafica del progetto. Doveva essere solo una cosa temporanea ma quando ti avvicini a questo mondo poi è difficile allontarsene perché è molto coinvolgente. Ti rendi conto che c’è tantissimo bisogno di aiuto, ci sono situazioni così difficili, così drammatiche, così contingenti che non si può lasciare. E quindi sono rimasta.
In che modo è cresciuto il centro d’ascolto?
Abbiamo creato molti corsi di formazione e costituito il servizio h24 che ancora funziona. All’inizio però non chiamava quasi nessuno anche se le problematiche c’erano in abbondanza. All’epoca non c’erano ancora le leggi a tutela delle donne. La prima legge sullo stalking è del 2009 e quella sul femminicidio è del 2013. Dopo questa c’è stata l’esplosione stata esplosione dei centri antiviolenza e anche degli accessi ai centri antiviolenza.
Una delle più importanti battaglie del Cif che ha una storia che parte molto da lontano…
Sì il Cif, Centro Italiano Femminile venne fondato nel 1945 per sollecitare le donne ad avere voto attivo e passivo cioè a poter eleggere e essere elette. Il voto alle donne, in Italia, fu reso possibile grazie a Udi, Unione donne italiane e al Cif, che nacquero insieme come movimento delle donne, ma,per ragioni di aderenze politiche, uno alla Democrazia Cristiana, l’altro al Partito Comunista, seguire strade diverse. Nel 1945, però, avevano lo stesso obiettivo e insieme sono riusciti ad ottenere il voto alle donne, prima per il referendum sulla repubblica e poi il voto politico vero e proprio. Maria Federici, che fu tra le fondatrici e prima presidente del Cif dal 1945 al 1950, fu una delle poche donne elette nell’Assemblea Costituente. Nel 1975, l’allora vicepresidente nazionale Maria Eletta Martini, originaria di Lucca, portò la legge sul diritto di famiglia che fece, letteralmente cambiare le carte in tavola. Fino ad allora se le donne avevano possedimenti dalla loro famiglia, i beni andavano in gestione al marito. Dopo quella legge non fu più così.
Quale ruolo ha avuto all’interno del Cif?
Non avendo io né una formazione psicologica, né una legale, il mio contributo ha costituito una sorta di valore aggiunto perché portava il punto di vista della cittadina, quindi il modo con ci i vari problemi vengono visti dalle persone comuni senza eventuali vizi dovuti alla deformazione professionale. Ho dato un punto di vista super partes che, spesso, risulta molto utile. Infatti, negli ultimi anni le operatrici del Cif sono diventate soprattutto counselor.
Che cosa fanno le counselor?
Sono figure che non vogliono entrare in competizione con gli psicologi e gli psicoterapeuti che hanno percorsi diversi. Il lavoro del counselor si basa sull’ascolto sul momento, nel tentativo di far emergere le potenzialità della persona. Non fa indagini nella personalità della persona che chiede aiuto, ma resta solo sul contingente cercando di risolvere il problema perché le donne che si rivolgono al Cif hanno bisogno subito di risposte. Devono ritrovarsi e in questo le aiuta il counselor. E poi c’è anche un altro motivo: i compagni delle donne maltrattate in genere le accusano di essere pazze, di dover essere curate da psicologi, di essere stupide o malate. L’affidamento a tali figure, a volte, è percepito dalle donne come una conferma delle accuse dei loro compagni e quindi come un dubbio che nasce sulla loro stessa sanità mentale.
Quanti sono gli operatori del Cif di Carrara?
Ci sono sette operatrici molto brave e una coordinatrice che ha un quid in più perché è di origine marocchina, ha una laurea in legge presa nel suo paese, parla arabo, francese, inglese e italiano e questo favorisce l’avvicinamento delle straniere. Moltedi loro sono counselor perché si sono avvicinate al centro per fare tirocinio e poi sono rimaste; le altre hanno un diploma di micro counseling, perché ogni anno noi facciamo un corso da 60 ore di formazione sul counseling.
Lei ha un lungo trascorso anche nella commissione pari opportunità…
Sì. Nella precedente amministrazione, quando il presidente era Alessandro Bandoni, ero una dei componenti. Con questa amministrazione sono diventata presidente perché Bandoni ha avuto un incarico a scuola e ha dovuto lasciare la presidenza. Anche questo è un impegno molto grande, però, possiamo dire di essere riuscite a fare belle cose come, ad esempio, il drappo rosso che è in sala di rappresentanza del comune che è un segno per ricordare che la parità c’è e deve esserci sempre. Il nostro obiettivo è di renderci visibili per tenere alta l’attenzione sul problema, quindi di vigilare e cercare di cambiare la mentalità e la cultura. Quello che conta è lasciare un segno. Seminare e poi vedere cosa cresce.