La memoria orale è un racconto, una narrazione, una testimonianza utile a ricostruire fatti accaduti. È difficile e complesso spiegare il rapporto che talvolta nasce tra intervistatore e intervistato. Una relazione che nasce spontaneamente, sulla base di una fiducia reciproca. A volte mi sono trovata di fronte donne con cui avrei dovuto parlare di argomenti diversi da quelli che poi sono emersi, chiacchierando, sciogliendo le barriere. Spesso sono diventata la confidente, la persona a cui affidare tasselli di memoria mai raccontati prima. La fonte orale è preziosa, indispensabile nella ricostruzione storica di fatti capaci di sollevare questioni di grande rilievo. Mi sono trovata di fronte a donne sopravvissute all’ultima guerra, appesantite da un bagaglio da svuotare, storie mai rivelate prima. Mi sento orgogliosa di essere stata prescelta, privilegiata nel raccogliere parole, lacrime, emozioni. È successo davanti a Ernesta, Albertina, Ilda e altre. Donne che hanno visto in me la persona adeguata con la quale lasciarsi andare, liberarsi di un peso. Nel periodo del dopoguerra c’era voglia di dimenticare, di lasciarsi alle spalle gli orrori, gli spaventi, lo spettro della fame, i morti, le tragedie, le stragi. Bisognava seppellire quelle storie in un angolo del cuore, sotto un cumulo di terra e una croce conficcata sopra. Anche Ilda portava nel suo cuore quel cumulo di terra, quel dolore sepolto ma ancora vivo, sanguinante. È bastato poco per far resuscitare quei fantasmi che Ilda pensava fossero scomparsi: sono arrivata io, nella sua casa, nella primavera del 2021, in tempo di pandemia, per una storia legata al vaccino Covid-19. Mi sono presentata. Lei mi ha guardata e mi ha detto: “Sei di Forno?” “Sì, sono nata e cresciuta a Forno”. Una smorfia di dolore, uno sguardo perso nel vuoto come a scrutare un orizzonte lontano. “Io l’ho vista la cappa dei morti. Abbiamo visto i fascisti e i nazisti infilare il fucile anche nel concime: avevano sete di sangue e cercavano ovunque vite umane, per il massacro”. Sua figlia ascoltava, stupita: non aveva mai sentito la madre raccontare quelle atrocità, non era a conoscenza di quel pezzo del suo vissuto.
Ilda Barani, classe 1920, nella primavera del 1944, come tanti, aveva scelto di dirigersi verso la montagna massese, un luogo ritenuto più sicuro. Molte famiglie di Massa, soprattutto anziani, donne e bambini, si riversarono nei paesi a monte, trovando ospitalità e accoglienza. Ilda, la sorella Giuliana e la cognata Bianca, e tre bambine, raggiunsero così Forno, immaginando di essere più protette.
Ilda Barani, 101 anni, ricorda perfettamente la casa, le scale, la strada, il fiume, l’orrore di quel 13 giugno 1944.
“Con mia figlia Maria Teresa, di un anno, ero ospite della Santina. Mia sorella e mia cognata, con le due bambine, stavano da Arduina ed Ezia, in una casa che si affacciava sulla strada. Ero sempre da loro, perché volevamo stare tutte insieme. Quel giorno c’era il terrore ovunque. Stavamo chiuse in casa, nascoste, impaurite. Arrivò da Massa mio fratello, Giovanni, marito di Bianca, per portarci del latte per le bambine. Poi uscì, si allontanò, ma in strada i fascisti lo catturarono e lo portarono dentro la caserma. Lui raccontò in seguito che dentro quella caserma udiva dei continui lamenti, gemiti dei prigionieri feriti, chiusi in quello spazio buio. Non si sa come, ma Giovanni riuscì a fuggire. Tornò alla nostra casa, in città, al mattatoio. Mia madre disse che era bianco come la cera, tremante, spaventato e ripeteva “Li ammazzano tutti, li ammazzano tutti, lassù”. Per fortuna era riuscito a fuggire perché la caserma, poco dopo, venne incendiata e se fosse rimasto là, sarebbe morto, arso vivo insieme ad altri prigionieri.
Dalla strada gridavano “Tutti fuori! Tutti fuori!”. E cominciò il rastrellamento, casa per casa.
Ci portarono fuori, sotto il sole, verso la strada che porta al cimitero, per tutto il giorno. Ricordo il caldo, la sete. Eravamo in fila, sul lato opposto, oltre il fiume, sotto il tiro dei Mai Morti e dei nazisti.
Avevo la bambina piccola, di un anno. Aveva fame. Chiesi a uno dei Mai Morti che stava di guardia, di poter raggiungere la mia abitazione, per prendere del latte per la piccina. In due mi accompagnarono lungo la strada, con il fucile puntato. Erano peggio dei tedeschi nazisti. Una volta entrati in casa, cominciarono a rovistare tutto, rubando quello che era di loro interesse.
“Le consigliamo di stare qua, chiusa in casa” mi dissero alla fine. Mi invitarono a non tornare di là dal fiume, perché c’era del pericolo. Ebbi paura. Di là, ci avrebbero ammazzati tutti, così dicevano. Pensai a mia figlia, alle mie sorelle oltre il fiume, in fila, con la popolazione rastrellata. “No, non rimango. E se devo morire, vado a morire con loro. Muoio insieme a loro” urlai. Tornai di là dal fiume, con Bianca, Giuliana e le bambine. Non so perché, ma nel tardo pomeriggio ci liberarono. Andammo tutte in casa della Ezia. Scorgemmo sulla strada il maresciallo dei carabinieri, Ciro Siciliano, che continuava a fare avanti e indietro. Forse i tedeschi cercavano di avere notizie da lui. Forse voleva trovare una soluzione. Mettemmo i bambini a dormire e noi sedute accanto, con gli occhi sbarrati e la paura nel cuore, ad aspettare.
Avevamo paura che tornassero, per ucciderci. Temevamo più i Mai Morti dei nazisti. Bianca, al momento del rastrellamento, disse a uno di loro: “Ma siamo tutti italiani”. E lui, con sprezzo: “Siete tutti badogliani”. A sera era sceso il silenzio. Poi, all’improvviso, sentimmo la sparatoria, l’eco delle mitraglie. E ancora silenzio. Appena fatto giorno cominciarono le urla, disperate, e vedemmo la cappa di morti… Non si può dimenticare la pietà delle madri su quei poveri corpi massacrati. Ecco, del 13 giugno, al Forno, ricordo la cappa dei morti, io li ho visti. Ci spaventammo e decidemmo di lasciare quel paese che ci aveva fatto sentire sicure. Tornammo a casa. Eravamo sopravvissute”.
Non possiamo andare oltre. Ilda Barani soffre nel raccontare ciò che vide in quella giornata. “Volevo dimenticare, e quasi mi ero dimenticata, ma adesso che ne parlo tutto mi torna alla mente. Non volevo ricordare, non volevo, ma sei arrivata tu…”
Come tanti sopravvissuti a quella giornata di terrore, Ilda Barani non aveva mai raccontato quello che aveva visto, le terribili scene a cui aveva assistito. E sua figlia non sapeva di essere pure lei, una sopravvissuta. La ringrazio per avermi lasciata custode di un tassello di memoria, di una preziosa testimonianza per farne buon uso. Buon uso significa condividerla con voi, lettori, per non dimenticare le sofferenze della popolazione in quella che fu una lunga resistenza civile, una battaglia per riconquistare la pace e la libertà. Buon uso significa parlarne con i giovani, affinché il sacrificio di Ilda, di donne e uomini che hanno combattuto per la scelta di un futuro di libertà non sia mai vanificato. Le donne ebbero un ruolo fondamentale durante la guerra di liberazione, tutte si occuparono della cura dell’altro. E Ilda, dopo il buio, dopo la morte, divenne ostetrica scegliendo la luce, la vita.