Il mio bisnonno Giuseppe, Beppe per tutti, era originario delle “parti di Stazzema”: l’indicazione precisa non era mai stato possibile saperla, e, almeno da quanto mi è stato tramandato, venne ad abitare a Carrara perché era la patria dell’anarchia. Le poche cose che so di lui vengono dagli scritti di mio zio e di mio padre. La bisnonna Gemma era di Carrara, figlia di Carlo Mani, che aveva un negozio di barbiere sulla Carriona, quando Carrara era un pullulare di esercizi commerciali tra la fine dell’800 e gli inizi ‘900.
Gemma e Giuseppe si sposarono nel 1896, lei aveva appena 18 anni e lui undici di più. Fecero una “sbarica” (tantissimi) di figlioli, di cui diversi morirono in fasce, come, purtroppo, capitava frequentemente. Il mio nonno Renato era il secondogenito e anche lui si sposò giovanissimo. Anche del nonno Renato sono stati mio padre e mio zio a tramandare i ricordi. Una volta sposato, Renato, tutta la famiglia andò a vivere nel Caffaggio. Da un racconto dello zio Manrico, scritto per il premio Bottiglioni, ho potuto capire il grande legame che, nonostante le difficoltà e i lunghi anni di matrimonio, c’era tra loro e che Beppe manifestava con la sua gelosia. Gemma e Beppe erano appassionati di lirica, soprattutto lei. Erano già “anziani” al tempo dell’episodio che mio zio Manrico racconta, nel quale, lui che era nato nel 1928 era molto piccolo. Il racconto si intitolava “’Na s’rata ‘n pizonara” (Una sera in piccionaia). Dopo una serie di schermaglie tra i miei bisnonni perché l’opera che si doveva rappresentare agli Animosi era interpretata da “un tenorino” già venuto a Carrara nella stagione passata, la nonna Gemma convinse Beppe a portarcela. Per essere più tranquilla, dato che lui insisteva con: “E ti garba ‘l tenorino a te, un dì di no!” (E ti piace il tenorino, non dire di no) la nonna portò con loro il piccolo Manrico, che sbadigliò tutta la sera. Gemma, per tutta la sera rimase estasiata dalla musica e travolta dalla storia dell’opera tenendo le mani sul cuore e Beppe continuò a dirle: “E a te ti garba proprio ‘sto stonato di un tenore!”, ma quando l’opera finì e tornarono a casa, all’imbocco del Caffaggio, il nonno Beppe le aggiustò lo scialle sulle spalle per non farle prendere freddo. Un’altra volta, sempre nel Caffaggio, dove da una finestra all’altra ci si può passare il sale, accadde un altro episodio in cui Beppe mostrò il suo carattere sanguigno. Proprio a fianco ai Viti, abitava una donna, alquanto ciarliera (bocalona, a Carrara) che aveva un fratello gerarca. Una volta il fratello andò a trovarla con un macchinone tutto nero. Era estate e Beppe stava mangiando la sua bella pastasciutta proprio vicino alla finestra. La donna si affacciò e cominciò la cantilena: “Uh a ìè ‘l mè frated! Ma com i è bel con la so divisa nera! E com a l’è bela la so machina nera!” (Oh c’è mio fratello! Come è bello con la sua divisa nera e come è bella la sua macchina nera). Il gerarca salì in casa e si affacciò alla finestra pensando di trovare una folla di curiosi ai quali poter arringare ma quando si affacciò non trovò nessuno a parte il nonno Beppe che, all’improvviso gli tiro in faccia il piatto con la pasta al pomodoro: “Con tutto quel nero un po’ po’ di rosso ci sta bene!” disse mio nonno. Mio padre era considerato un osso dura dal nonno Beppe e si raccontava che quando si metteva in testa una cosa era difficile convincerlo a desistere. Una volta si mise in testa di voler mangiare la ricotta. Ai tempi la ricotta era portata casa per casa, da chi la produceva una volta a settimana. E quello non era il giorno. Ma il piccolo Carlo insisteva a chiedere la ricotta, lasciando la minestra a raffreddare sul tavolo. La nonna Gemma, allora, gli disse: “Dai va ‘n fond a le scale e aspet che al ven la dona d’ l’arcot” (Dai, vai in fondo alle scale e aspetta che viene la donna della ricotta). Mio padre andò e, poi, si accorse che il tempo passava ma: gnent ar’cot (niente ricotta). Così mio padre mesto, mesto risalì le scale e si mise a mangiare la minestra fredda. E la nonna Gemma gli disse: “Oh! T’à vist che a l’è v’nuta quela d’ ar’cot!” ( Hai visto che è venuta quella della ricotta). La storia più bella sulla nonna Gemma che ci è stata tramandata riguarda la pasta e fagioli. La nonna Gemma doveva preparare da mangiare non solo ai suoi nipoti diretti, ma anche ai figli del fratello di mia nonna Guglielma Babbini che era al confino e, tra tutti, erano veramente tanti. Avendo deciso di fare la minestra nei fagioli, un giorno, Gemma chiese ai suoi famigliari: “Doman a fai la minè ‘n ti fasoli. Cos i volet drent?” ( Domani faccio la minestra nei fagioli. Cosa ci volete dentro?) Si levarono un sacco di voci: “Taiarin!” “Ditalin” ( taglierini, ditalini) e altro. Il giorno dopo la nonna Gemma si presentò con un “concone” (zuppiera) fumante di pasta e lo posizionò in mezzo alla tavola. Quando cominciarono a mangiare alcuni protestarono “Ma me a volev i taiarin!” “Me i ditalin” (Ma io volevo i taglierini, io i ditalini). La Gemma allora rispose: “Z’rcat’vli!” (cercateveli): aveva mescolato tutto e bona! ( e buonanotte).