La storia non è altro che un susseguirsi di cose già avvenute. Fatti che avrebbero dovuto insegnare molto, ma che in realtà si ripetono, senza memoria. È di poco tempo fa l’immagine del bambino che una donna afghana lancia oltre i reticolati, oltre il filo spinato, nel gesto della speranza, della salvezza, di una vita migliore, oltre il recinto dell’odio e della guerra. L’immagine di quel bambino affidato a mani sconosciute ha fatto il giro del mondo. Piange, la madre, mentre lo guarda andar via, ma prega e spera nella sua libertà. Ebbene, quell’immagine mi ha riportato a Mario e Carmela. Mario, il bambino salvato al fronte, sulla linea gotica dell’Altissimo, lanciato sulla nave dalla madre agonizzante affinché qualcuno lo trovasse e lo aiutasse a ritrovare una famiglia, l’amore, la vita. Era il 1945. La guerra ancora non era finita. Il racconto l’ho intitolato “Carmela e Leida”, due donne capaci di tanto amore, due donne che credono, che donano, che salvano nel dolore e nella sofferenza.
Carmela era una giovane donna originaria di Caserta. Durante la guerra era venuta a vivere a Massa, seguendo il marito Alfonso, che era un agente di custodia del carcere al Castello Malaspina. A Caserta aveva lasciato un figlio e una figlia, affidati alla sua famiglia, e a Massa aveva avuto un terzo bambino a cui aveva messo nome Mario. Dopo il bombardamento di Massa, Carmela si ritrovò sola, in mezzo alle macerie, con in braccio il suo bambino di sei mesi. Decise di tentare di passare il fronte oltre le montagne come ultima chance per la salvezza ma quando stava per raggiungere la vetta del monte Altissimo, in mezzo alla neve, venne raggiunta da una raffica di mitraglia sparata dai tedeschi.
“La donna comprese che non sarebbe sopravvissuta alle profonde ferite provocate dalle armi da fuoco: le avevano dilaniato le viscere ed era immobilizzata nel dolore. Fu la neve ad accogliere il suo tonfo sordo, mentre stringeva il bambino al petto, per l’ultima volta. “Mario, Mario, almeno tu dovrai salvarti da questo inferno. Addio, mio amore, mio piccolo bambino…”. Prima di perdere i sensi e confondersi nella tormenta di neve, Carmela radunò a sé tutte le forze, invocò la protezione di Sant’ Anna, adorata al suo paese perché protettrice di Caserta e delle puerpere, e con un gesto disperato lanciò il piccolo fagotto che teneva tra le braccia. La neve soffice avrebbe attutito il colpo. E poi, ormai, era evidente che Mario era nato per vivere, se nemmeno la scarica di mitraglia lo aveva scalfito. Lei sapeva che quel bambino avrebbe superato ogni dolore, ogni avversità, perché così stava scritto. Mario si era affacciato alla vita da vincitore e non voleva perdere la sua battaglia. “Vai, piccolo mio, vai, e che Sant’Anna ti protegga”. Adesso che il piccolo rotolava nella neve, la mamma poteva chiudere gli occhi e morire. “Urla, bambino mio, urla, più forte che puoi, qualcuno ti sentirà”. La donna giaceva supina, in una rosa di sangue che allargava i suoi petali nel candore della neve”.
Il bambino cominciò a strillare e venne sentito da un militare americano della Divisione Buffalo che faceva la staffetta tra Azzano liberata e la compagnia partigiana Mulargia nei monti del paese di Forno. Il soldato raccolse il bambino e, non avendo nulla da dargli per calmarlo, mise un po’ di zucchero in una pezzola di stoffa bagnata nella neve e lo appoggiò sulla bocca del bambino che cominciò a succhiare fino a calmarsi e ad addormentarsi. Il solato americano era diretto a Forno e lì, alla caserma del Carabinieri, portò il bambino
“Ben presto tutto il paese seppe di quel neonato rimasto orfano, trovato al fronte, nella neve. Aveva bisogno di una nuova mamma, di una casa, ma c’era miseria e carestia: come potevano le famiglie aggiungere una bocca in più da sfamare? Alcune donne di Forno, le più anziane, ancora oggi, ricordano bene l’arrivo di quel piccolo scampato alle raffiche di mitraglia che avevano falciato la madre, sopravvissuto alla tormenta della neve di gennaio, sull’Altissimo, a due passi dalla libertà. Si racconta che anche il parroco, don Vittorio, si interessò del piccolo dichiarando la sua disponibilità nell’aiutare, almeno nei primi mesi, la famiglia che se ne sarebbe presa cura”.
Leida aveva 37 anni, come suo marito Giovanni e non aveva potuto avere figli, anche se li aveva desiderati moltissimo. Lei e il marito abitavano in una piccola casa nella via Vecchia del paese, accanto al circolo della Democrazia Cristiana. Leida superò presto l’incertezza e vedendo in quel bambino arrivato dal nulla la grazia che le aveva fatto Sant’Anna, a cui era molto devota. Così convinse il marito e lo adottarono. Tra i panni che avvolgevano il bambino c’era una busta nella quale Carmela aveva messo i documenti di identità suoi e del bambino e soldi e oro che era riuscita a non consegnare ai fascisti quando era partita la campagna dell’oro per la patria.
“Mi adottarono – racconta Mario a distanza di 70 anni – Mamma Leida aveva lavorato alla filanda di Forno e dopo la distruzione della fabbrica, lavorò alla Marelli, in zona industriale. Mio padre Giovanni era barbiere, ma arrotondava lavorando anche in uno zuccherificio. Per loro divenni Giuseppe e al cognome dei miei genitori naturali, sulle carte fu aggiunto anche quello dei genitori adottivi. Andavo alle scuole medie quando in classe mi chiamarono con il nome e il cognome datomi dai miei genitori naturali. Qualcosa avevo saputo sulla vicenda, ma quella situazione la vivevo a distanza, con distacco, senza alcun coinvolgimento emotivo. Ero stato a Caserta una volta, a trovare la nonna materna. I miei genitori adottivi mi regalarono quel viaggio in occasione della prima comunione. Ricordo che alla stazione, sceso dal treno, trovai un portafoglio gonfio di soldi. Li consegnai alla mamma e quei soldi si rivelarono provvidenziali perché, quando arrivammo destinazione trovammo una miseria indescrivibile. Ebbi modo di conoscere e abbracciare mia sorella in un enorme corridoio di un convitto di suore. Ricordo l’eco degli zoccoli che calzava nel corridoio vuoto. Mio fratello non se la passava meglio, accolto in una struttura per religiosi. Carestia e miseria, ovunque. La mamma, allora, prese quei soldi che avevo trovato e li consegnò a mia nonna. Ricordo il grande pranzo che preparò, una festa per tutti i parenti. Sono sempre andato fiero di quel gesto e ho ringraziato il destino che mi aveva fatto trovare quel portafoglio con i soldi necessari a farci star bene, insieme, anche se per un solo giorno. Ma non provavo affetto verso i miei parenti di Caserta, non li conoscevo e per me erano estranei. Però, quel giorno, a scuola, quando mi chiamarono “Mario”, capii che c’era qualcosa della mia vita che mi era sfuggito. Mia mamma era molto apprensiva, aveva sempre paura che potessi farmi del male. Cercava di proteggermi da tutto. Quel giorno, a tavola, quando le chiesi di “Mario” non poté tacere. “Vedi Giuseppe – spiegò – qualcuno ti trovò sulla neve, avvolto in un trench. È stato un soldato americano a portarti a Forno. Avevi sei mesi appena. Io ero senza figli e desideravo tanto averne uno. E sei arrivato tu a riempire la mia vita. La tua mamma morì mentre passava il fronte. Tu ti sei salvato ed io mi sono presa cura di te. Sono la tua seconda mamma, Giuseppe: tu sei nato due volte”.
Mario cominciò allora la sua incessante ricerca sul destino dei suoi genitori e sulle sue origini. A 25 anni scoprì che la madre era rimasta gravemente ferita sul monte Altissimo e che era stata trasportata all’ospedale di Pietrasanta, dove era morta pochi giorni dopo. Seppe anche che era stata seppellita in una fossa comune mentre il padre era stato ucciso per aver difeso alcuni prigionieri politici. Forse era stato fucilato al Pasquilio alla “Fossa dei tedeschi” o al “Ponto de Mignan” sulla strada per San Carlo, comunque un luogo in cui i testimoni gli avevano raccontato che aveva un muretto lungo il quale venivano messi in fila i prigionieri per essere fucilati. Leida è morta che aveva quasi ottanta anni, non abbandonando mai il suo senso di protezione verso suo figlio Giuseppe.
“A Santa Lucia – ricorda Mario -, dove sono vissuto dopo i primi anni trascorsi a Forno, mi conoscono tutti come Giuseppe, come avevano voluto i miei genitori adottivi”.
Alla fine è Mario il nome che prevale, quello che Carmela gli aveva dato il giorno in cui era venuto al mondo. Di Carmela resta, invece, solo il nome inciso nel sacrario della Tecchia, al Pian della Fioba, lassù, nel fischio incessante del vento, nel silenzio candido della neve. Lassù, nel cuore di uno dei maggiori centri della Resistenza, sul fronte occidentale della Linea Gotica.
Migliaia di perseguitati dell’Italia del nord furono guidati sulla via della Libertà attraverso gli impervi sentieri del monte Altissimo, verso i valichi dell’Italia liberata. Il sacrario ricorda tutte le vittime combattenti e civili che il passaggio al fronte provocò. Carmela è una tra tante, uccisa per un sogno di libertà. E Leida ha aperto il suo cuore accogliendo il frutto di quell’ amore. Mario Giuseppe non dimentica. Io l’ho cercato, ascoltando le donne di Forno nei loro racconti, nei ricordi di quel neonato spuntato nelle nevi dell’Altissimo. L’ho cercato e l’ho trovato, Mario. E lo ringrazio per questo tragitto di vita condivisa, per questa memoria vissuta e raccontata, per la sua, la mia emozione, l’emozione di chi ci ha ascoltato. Mario è venuto al mondo il 24 agosto 1944, mentre Vinca pativa l’orribile strage nazifascista, mentre Guadine periva tra ferro e fuoco. Nel terrore, nella morte, nell’olocausto di donne e bambini, Mario nasceva per percorrere un sentiero difficoltoso, per raccontarci oggi l’amore per la vita, ricordando Leida e Carmela. E forse, anche quel bambino consegnato a uno sconosciuto, oltre i reticolati afghani, un giorno racconterà la sua storia, l’amore per la vita, ricordando il compassionevole gesto di sua madre per un sogno di libertà.
Fonti:
Albertina e le altre – Angela Maria Fruzzetti (Ceccotti editore)
Impronte sulla neve – Poesie Via del sale 1944-45 – Angela Maria Fruzzetti (Memoranda edizioni)