La resa era cominciata il 29 ottobre 1918. Alle 10 del mattino il capitano austriaco di stato maggiore, Camillo Ruggera si era presentato a cavallo con in mano una bandiera bianca davanti alla prima linea delle trincee italiane a Serravalle, nella valle dell’Adige tra Rovereto e Ala, portando una lettera del comando austro-ungarico in cui si chiedeva di avviare le trattative per la resa.
Il capitano austriaco venne bendato e portato attraverso le linee italiane fino ad Abano, dove si trovava il capo supremo dell’esercito italiano, il generale Armando Diaz. La prima guerra mondiale, di fatto, finì in quel momento, ma a saperlo furono solo i soldati presenti su quel fronte. La velocità di divulgazione delle notizie aveva ancora tempi assolutamente umani e anche se quei soldati avessero potuto scrivere immediatamente a casa per urlare la gioia di essere sopravvissuti a una guerra feroce, finalmente finita, la posta, anche la più rapida, non sarebbe arrivata prima di quattro o cinque giorni. E poi c’erano ancora in corso le trattative e quindi, ufficialmente, non si sarebbe potuto neppure annunciare. Ci vollero tre giorni per mettere d’accordo italiani e austriaci. L’armistizio di Villa Giusti fu stipulato a Mandria di Padova, nella dimora del conte Vettor Giusti Del Giardino, alle ore 15 del 3 novembre, con la clausola di entrare in vigore esattamente 24 ore dopo. Il bollettino della cessazione delle ostilità viene inviato alle ore 16 del 4 novembre da Diaz che quattro ore prima aveva reso pubblico il bollettino della vittoria. La guerra era davvero finita: il 4 novembre divenne così il Giorno della vittoria celebrato per oltre 50 anni, come festa rossa del calendario. Negli anni ’70 non si andava a scuola e agganciando la celebrazione alle festività di Ognissanti e dei Morti, per gli studenti era la prima, graditissima breve vacanza dell’anno scolastico.
Carrara aveva dato un altissimo numero di soldati a quella guerra. I carrarini erano merce buona, in senso militare, perché erano quasi tutti cavatori, cioè gente abituata a scavare sentieri e gallerie nelle montagne. Il fronte italiano era tutto sulle Alpi orientali e sul Carso. Chi meglio di loro poteva essere ingaggiato nel genio militare? Partirono in tantissimi, qualcuno volontario, i più richiamati. Il tributo in vite umane fu enorme: quasi mille caduti. Ce n’era tantissima di gente a Carrara, in quei primi giorni del novembre del 1918, che aspettava con ansia l’arrivo della notizie della fine della guerra. Era così attesa che quando arrivò scatenò in città una gioia incontenibile e come era uso in quelle, sia pur straordinarie circostanze, le campane del duomo di Carrara vennero suonate a festa per divulgare la bella notizia. Suonate con l’impeto di un incubo finito, della vita che poteva ricominciare, della speranza di rivedere un figlio, un marito, un fratello. Suonate in continuazione per convincere tutti che era proprio vero, per esultare dell’essere ancora vivi. Suonate con la foga dirompente e rovinosa dei carrarini, quelli che da duemila anni erano più duri del marmo e quel marmo lo avevano piegato ai loro voleri. Suonate così tanto e così forte da spaccarne una, la più grande: il campanone.
Erano, e sono ancora, quattro le campane nella cella sulla sommità della torre campanaria del Duomo, alta 33 metri. Il campanone era ed è rimasto la campana più grande e pesante di tutta la diocesi di Massa Carrara Pontremoli. Nel 1888 sul campanone era stata incisa un’iscrizione dedicata all’unità d’Italia: “Abbattendo la tirannide questo bronzo squillante al popolo annunziò la libertà e delle vinte pugne la novella auspice Vittorio Emanuele e Garibaldi”. Dopo la vessatura causata il 4 novembre, il campanone venne rifuso e l’iscrizione originaria venne sostituita con un verso della poetessa Cecilia Caro che ricorda proprio l’episodio della rottura: «Squillando pei cieli infiniti il Cantico dei Cantici, la Vittoria d’Italia, prigione contro il bronzo, si spezzo la mia voce. Or, nuova, nel bronzo rifuso, la morte e la vita e i sacri misteri e il vincolo santo fratelli, e la pace vi canto».
Il 4 novembre non è più la Festa della vittoria e per non declassarla completamente a giornata qualunque, è stata commutata in festa delle forze armate, ma non più rossa sul calendario. Il tributo di una generazione di giovani a una guerra infame, sin da subito, cominciò ad essere ridimensionato e neppure il fascismo, con il suo ottuso delirio per la celebrazione della potenza militare, fu abbastanza onesto da corrispondere a quei ragazzi, che la guerra l’avevano vinta dentro trincee marce e sotto comandanti impazziti e crudeli, il doveroso riconoscimento economico che sarebbe loro spettato. Sempre meno ricordati, sempre meno celebrati, a più di cent’anni dal loro sacrificio, solo poche tracce restano di loro. Qualche monumento, il nome di qualche strada, vecchie foto, libri che pochi leggono. E una campana spaccata per la gioia.
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