Dalle ricerche di Angela Maria Fruzzetti sulle donne che lavorano nella filanda di Forno fino alla Seconda guerra mondiale esce fuori il ritratto di un’altra straordinaria donna di Massa che non esitò a sfidare i tedeschi pur di salvare il marito. È Guerrina Balloni la protagonista del racconto inserito nel libro della Fruzzetti: “Le donne della memoria”.
Guerrina era nata nel 1920. Lavorò nella filanda di Forno, frazione del comune di Massa, fino al 1942 quando la fabbrica chiuse, nel pieno furore della guerra, giusto due anni prima di essere distrutta dai tedeschi. Il 13 giugno del 1944, il giorno dell’eccidio di Forno, Guerrina era presente e ne ha conservato un ricordo tormentoso e indelebile che Angela Maria Fruzzetti ha raccolto fedelmente, riportando anche le espressioni dialettali della protagonista.
“Ero alla fine della gravidanza. Ogni giorno era buono per dare alla luce la mia creatura. Avevo 24 anni, una vita davanti insieme a mio marito Carlo. C’era la guerra, certo. Ma l’amore e la fede ci aiutavano a proseguire oltre, a sperare in un futuro migliore. Poi fu il giorno della tragedia… il 13 giugno 1944… Forno, il dramma, la morte, la carneficina. Carlo era nella fila dei rastrellati. Gli uomini erano stati divisi in gruppi: quali destinati alla deportazione in Germania quali destinati al massacro di Sant’Anna. E Carlo era in uno di quei gruppi. Come avrei potuto vivere senza di lui? Non era nel destino di quella creatura che custodivo in grembo nascere già orfana. Non era nel mio diventare vedova a 24 anni. Quel giorno c’erano i tedeschi, i fascisti, le mitragliatrici, gli spari, gli urli delle donne, il pianto dei bambini, il terrore. Il terrore ovunque. Ma non potevo, non volevo lasciare Carlo tra le mani di quei carnefici.
“A’ vagg a r’pighjarm’lo” (Vado a riprendermelo) pensai. “Vado a riprendermelo” gridai. Forse mi avrebbero uccisa. Forse avrebbero ucciso me e Carlo, e la nostra creatura. Ma non potevo, non volevo perdere mio marito senza aver almeno tentato di salvarlo. E così mi avviai lungo la strada. Lo vidi nel gruppo dei rastrellati, davanti alla caserma. Mi avvicinai. Lo presi per mano: “’Ndian vì, ven con me, ‘ndian vì” (Andiamo via, vieni con me, andiamo via) gli dissi. Mi guardò, smarrito, terrorizzato. “Ci ammazzeranno” disse, disperato.
Ma in fondo, quali alternative avevamo davanti? Quali scelte? Spinsi Carlo davanti a me, proteggendolo con il mio corpo, il mio grembo ormai maturo. C’era un soldato sulle scale, davanti alla porta della caserma. Era un giovane tedesco della SS. Ci guardammo, io e il militare, con insistenza. L’ho fissato, sfidato. Eravamo io, Carlo e la nostra creatura. Io, Carlo e la nostra bambina. “Dovrai uccidere tutti e tre” pensai rivolta al tedesco. Fu un momento interminabile.
Non so cosa vide quel ragazzo dentro i miei occhi. Non so cosa possa aver pensato davanti a una ragazza incinta di nove mesi che sfida le mitragliatrici e va a riprendersi suo marito.
“I’ ss’ammazz’rà… i’ss’ammazz’rà…” (ci ammazzerà… ci ammazzerà).
“Forse ci ucciderà” era il mio pensiero, man mano che proseguivamo lungo la strada. Ci ucciderà. Il tedesco non fece una smorfia, non disse una parola. Forse fece finta di non vedere e ci lasciò passare. Terrorizzata proseguii il cammino, senza voltarmi, con Carlo che pregava davanti a me. Camminavo e sentivo che da un momento all’altro, dalla mitraglia puntata, avrebbe potuto partire una raffica e ucciderci, di spalle. Scendemmo frettolosamente le scale del ponte di sasso, che erano diventate interminabili. Passato il ponte non ci sentivamo più sotto tiro e con il fiato in gola raggiungemmo la Rossola, una zona sopra Forno. Ero riuscita a salvare Carlo per merito di quel giovane tedesco che aveva finto di non averci visti. Ricordo ancora il suo sguardo e sono convinta che le porte del paradiso per lui saranno spalancate. Io e Carlo passammo tutta la giornata alla Rossola. Tutto il paese era rifugiato lassù, tra i casolari o sotto i castagni.
A sera, ci fu il massacro. Spietato, violento, disumano. L’eco assordante delle mitraglie, l’odore della polvere, il fumo, la morte. Fumo e fiamme, tutto il paese era avvolto da fumo e fiamme. All’indomani, scendemmo dalla Rossola per rientrare a casa. Incontrai mio nonno Gregò, che per me era come mio padre. Si fermò e strinse forte Carlo. Non sapeva che lo avevo portato via dalla fila. Lo credeva morto, insieme agli altri. Lo aveva visto tra i rastrellati, sotto il tiro dei fascisti. Dissi semplicemente, guardandolo: “A’ son ‘ ndata a r’pighjarlo”. El me nonno i pian’z” (Sono andata a riprenderlo. E mio nonno pianse). A Sant’Anna c’era il mucchio dei ragazzi morti, uno sopra l’altro. Mia madre prese dalla credenza delle lenzuola bianche e dei pezzi di stoffa e si diresse sul luogo dell’eccidio. Il sangue di quei giovani innocenti era ovunque e il fiume si tinse di rosso. Le donne del paese, sfilarono dal mucchio, uno ad uno, i corpi dei giovani massacrati. Li distesero tra l’erba, vicino al fiume. Li spogliarono, li ricomposero, li lavarono con acqua e aceto e li avvolsero in un lenzuolo, il loro sudario di morte.
Questo fece mia madre. Questo fecero tutte le madri. Era metà giugno e dopo pochi giorni, il 1 luglio, misi al mondo mia figlia. Mia madre la lavò, l’avvolse in un asciugamano di lino e me la consegnò: il suo pianto era un inno alla vita. E Carlo era con noi”.