Spesso mi domando se sia indispensabile assorbire acriticamente e scimmiottare tutto quanto ci viene propinato dall’estero. Se sia proprio inevitabile lasciarci colonizzare anche nelle tradizioni, oltre che nella lingua, nella mentalità e nel modo di vivere, subendo un’egemonia culturale esterna ed estranea che finisce con lo svuotare e mortificare la nostra plurimillenaria cultura e le antiche tradizioni legate al territorio. Il nostro “Ben dei morti” viene sostituito da Halloween, che è un’occasione di festa per circoli, pub, discoteche e quant’altro.
Vetrine piene di zucche di plastica, annunciano la sarabanda di streghe, scope, abiti carnevaleschi, mentre ci fanno dimenticare che la zucca è presente nella memoria e nel dialetto dei carraresi. Il “Soris d’ zuka” (sorriso di zucca) è la definizione di un sorriso largo e tirato, mentre la “zuka d’ mort” (zucca di morto) si riferisce ai morti ed in particolare al teschio. Da anni, ormai, le scuole, ad ottobre, vanno in fibrillazione per preparare la festa di Halloween, mentre il loro ruolo, dovrebbe essere quello di promuovere cultura e non quello di andare a rimorchio. Probabilmente, le tradizioni sopravvivono se sono legate a quello che oggi si chiama business. Una festa che non induce a momenti di riflessione, che allontana dal cordoglio, dalla commemorazione, dai riti della Festa dei morti e di Ognissanti, consolidatisi nel tempo a Carrara. Di morte, si parla solo se fa spettacolo, altrimenti la si ignora. Eppure, non molti anni fa, adulti e bambini vivevano la realtà della morte, quando un congiunto moriva in casa, magari nello stesso letto nel quale era nato. Un filo che legava la vita e la morte nella quotidianità. Oggi si assiste ad un progressivo allontanamento dei morti dal luogo dei vivi. Si muore sempre più negli ospedali e sempre meno nelle case. Una morte silenziosa asettica, mai così drammaticamente sola. Il rapporto con l’aldilà, è una sorta di cambiale in bianco data da gestire alla Chiesa. Ai più interessa lo star qua, il presente. La morte è un tabù da nascondere, da scacciare, una zona di confine della vita che spaventa, anche se la filosofia continua a dirci che rinnegarla significa abdicare ad una delle più importanti domande dell’umanità. L’obiettivo primario è quello di raggiungere la ricchezza, considerandola la chiave che apre le porte della felicità, dell’invincibilità, e si pensa che anche la morte abbia un prezzo e, con il denaro si possa allontanare. Così, sempre più spesso, sia per la festa dei morti, sia per la festa di Ognissanti, una folla sempre più demotivata varca i cancelli dei cimiteri. Forse sarà perchè il culto del vitalismo esasperato, nel tempo, ha usurato il senso della morte, ormai rimossa dalla sensibilità corrente? I vivi con i vivi, dunque, i morti con i morti.
Mi piacerebbe che fosse possibile recuperare queste due feste così come erano, oltre il ricordo struggente, di chi non è più con noi. Recuperarle nella loro interezza fatta di cordoglio, sensazioni, percezioni, gesti rituali, odori, sapori, colori. Nella mia infanzia il ponte dei morti aveva un significato metafisico, perchè in quei giorni si stabiliva un ponte con l’aldilà, percorribile in entrambe le direzioni. Già dalla prima mattina, donne e bambini poveri, bussavano alle porte chiedendo il “Ben di morti”. Ognuno dava, secondo le proprie possibilità: uova, farina di castagne, olio, fave secche, fichi secchi o altro. Un modo nobile per onorare i morti, e dare un segno tangibile di solidarietà ai meno fortunati. C’era poi la visita al cimitero, ma esisteva anche una più arcaica convinzione che sussurrava che ci fosse anche la visita dei defunti ai loro cari viventi. La vigilia d’Ognissanti era soprattutto la festa della famiglia che si ritrovava insieme, tutti i presenti uniti agli assenti. Il fuoco acceso, l’aria odorosa del cibo rituale: la mamma preparava la “Codana d’ baḍóti cón i pómi rotèḍa” (collana di castagne bollite e mele tipiche della nostra terra), che veniva appesa in fondo al letto, in attesa di essere indossata la mattina seguente. In cucina, vicino al focolare, qualche fetta di pane, una scodella di farro, le ballotte, un po’ di sale, per onorare il passaggio dei defunti nei luoghi cari della loro vita terrena. In loro onore il 2 Novembre si cucinava il farro con i fagioli, che nel tempo hanno sostituito le fave, legume tipico della nostra tradizione alimentare, usate in maniera particolare, per la preparazione del piatto tipico di questa ricorrenza. La fava, fino dai tempi remoti era considerata un cibo che legava i vivi ai morti infatti, si credeva che all’interno di esse, si celassero le anime dei defunti. A chi bussava alla porta chiedendo ” ‘L ben dì morti” veniva offerta una scodella di farro insieme a fette di pane e al pan dei morti, dolce povero fatto di pasta lievitata, uvetta e semi di finocchio, a volte arricchito con gherigli di noci. Si donavano anche uova, vino, olio, farina e quant’altro. Il era accompagnato, dall’aspro della vinella e dal frizzante della “Gr’spia” (ultimo vino estratto dalla pigiatura dell’uva), della quale, il primo bicchiere veniva versato in onore di tutti i morti, anche di quelli sconosciuti. Le candele, poste davanti ai ritratti dei defunti, si consumavano pian piano, come pian piano si recitava il rosario poi, tutti a letto, mentre sul tavolo o sul focolare si lasciava del cibo per gli attesi visitatori. C’era anche chi, in gran segreto, per impedire che spiriti importuni e tormentati salissero le scale, insaponavano i gradini. Tutti i lavoratori del marmo, compresi i non credenti, si recavano al cimitero. Qualcuno affermava:”I santi a ni abián kunusuti, ma i mòrti si” (I santi non li abbiamo conosciuti, ma i morti sì). La mattina, ci si alzava molto presto per far posto nel letto ai cari defunti, si cambiavano le lenzuola mettendo quelle più belle e fresche di bucato poi, ci si recava alla prima Messa dei morti. Un attento osservatore può ravvisare nella vigilia d’Ognissanti un’ambiguità di fondo: da un lato la bontà del ricordo e della vicinanza; dall’altro la paura, da esorcizzare, di un tormentato rientro sulla terra. Quella sera, tutti in casa andavano a letto molto presto, non tanto per timore, quanto per rispetto del previsto traffico oltre tomba. Strade, vicoli, piazze, secondo la fantasia popolare, erano affollati da anime del purgatorio che tornavano a casa, o che visitavano i luoghi abituali e cari. In questa notte anche i contadini guardavano, con rispetto reverenziale, le inquietudini dei propri animali. In quel giorno, infatti, si riteneva fossero portatori sani di messaggi venuti dall’aldilà: così il miagolio del gatto, il muggito della mucca, il latrato del cane evocavano presenze, segni e lamenti.
La festa di Ognissanti e la ricorrenza dei defunti, non erano una Carnevalata e tanto meno l’occasione per balli e scherzi, ma, al contrario, pratiche assolutamente da evitare. Radio e TV avevano il buon gusto di rispettare l’usanza, trasmettendo musica classica o religiosa. L’aspetto positivo di quel giorno, al di là delle usanze arcaiche, era nella capacità di “addomesticare la morte”, di accettarne la contiguità, di viverla senza rimuoverla. Serviva a ricordare che la vita ha un limite, che non tutto è consentito, che dobbiamo accettare il confine. La morte ci dava il senso della misura, inteso non solo come limite ma anche come metro per valutare le cose della vita. Se la filosofia è addestrarsi a morire, come insegnava Platone, il 2 Novembre era un corso di filosofia popolare. Non finirò mai di sperare che alla fine, “uomini e donne di buona volontà”, recuperino il giorno dei defunti nella sua completezza, oltre il ricordo dolce e struggente di chi non è più con noi. Ciò sarebbe molto più significativo dell’usanza futile dettata dal mercato, che trasforma, il giorno dedicato alla commemorazione dei defunti, in un illogico Carnevale d’importazione.
RICETTA “BEN DI MORTI”
Questo è un dolce molto povero si usava farlo nella ricorrenza di Ognissanti e dei Morti. La sua preparazione non prevede l’uso dello zucchero perché l’unico elemento dolce era dato dalla presenza dell’uva secca e dei semi di finocchio. Sia l’una che gli altri, venivano essiccati pazientemente dalle donne di casa per poterli poi utilizzare nelle varie ricorrenze. L’uva essiccata, spesso e volentieri, era a costo zero perché frutto dell’andare a “Graspoḍár”nelle vigne, dopo che si era fatta la vendemmia. Un tempo a Carrara, vigeva la tradizione che permetteva ai ragazzi e alle donne, di raccogliere tutti quei grappoli sfuggiti alla vendemmia e ancora presenti sui filari di vite.
Ingredienti:
Farina di grano “00” g 600, lievito di birra g 25, uvetta 150 g, noci 150 g, semi di finocchio due cucchiaini da caffè, un cucchiaino e mezzo di sale fino, “un cucchiaio di zucchero” per favorire la lievitazione, due cucchiai d’olio extra vergine d’oliva, acqua 360g.
Preparazione:
Sciogliere il lievito in poca acqua tiepida e unirlo alla farina versata a fontana sul piano di lavoro, aggiungere il sale e un cucchiaio di zucchero, versare 320 g di acqua ( la restante si aggiungerà all’occorrenza), lavorare bene l’impasto e dopo aver formato una palla, coprirla e metterla a lievitare. Quando il volume sarà raddoppiato, porre l’impasto sul piano di lavoro, unire l’uvetta fatta rinvenire in acqua tiepida e ben strizzata, i gherigli di noci spezzati, i semi di finocchio e due cucchiai di olio extra vergine d’oliva, spolverare di farina e lavorare fino ad ottenere un impasto morbido ed elastico. Dividere l’impasto in due pezzi, formare due filetti “Culunbín” e dopo averli incisi diagonalmente, porli a lievitare, coperti, in un luogo tiepido, lontano da correnti d’aria fino a quando non si presenteranno ben gonfi. A lievitazione avvenuta, infornare a 180 gradi per 30-35 minuti.
© Foto Archivio Michelino