Sono nata a metà degli anni ’50. La mia è la prima generazione nata dopo la seconda guerra mondiale, tragedia che abbiamo conosciuto dalla voce di chi l’ha combattuta o, comunque, vissuta. Nei racconti della mia famiglia c’era la miseria, che aveva costretto il nonno Francè ad andare in Africa, per finire, poi, a patire lo stesso la fame. C’erano gli ideali anarchici che avevano fatto di mio nonno, Renato Viti, un fuoriuscito e che rendevano i fratelli di mia nonna, Guglielma Babbini, dei reclusi ogni volta che alla stazione di San Martino, passava un treno che ospitava un qualunque gerarca. C’era la guerra partigiana scelta da mio padre, comunista, perché non si poteva rimanere indifferenti. “Odio gli indifferenti. Vivere significa partecipare”. È una frase di Gramsci che mi ha sempre accompagnato. Io non ho proprio potuto rimanere indifferente. Certo, a quattordici anni mi è capitato il ‘68, che, però, a Carrara arrivò nel ‘69. Ma fu, lo stesso, una grande occasione per prendere una posizione e per me, fu facile “schierarmi” all’estrema sinistra, gruppettara, insomma. Cionondimeno mi scontrai ugualmente con mio padre con cui facevo continuamente grandi discussioni. “Vieni qui che ti spiego!” mi diceva e me a zirar ‘l tavulin (e io a girare intorno al tavolino). “Non dovevate riconsegnare le armi! Ora siamo satelliti degli USA!” gli urlavo pensando anche alla guerra in Vietnam. E mio nonno Francè, seduto sulla sua poltrona a fianco del termosifone, che cercava una via di mezzo tra me e mio padre: “Tuta z’rved q’la ninina lì! A n’ va mia ben!” (Tutta cervello quella ragazzina, non va mica bene!). Cominciò l’epoca delle assemblee d’istituto e delle occupazioni alla mia scuola, l’istituto tecnico Zaccagna. Nei ricordi spiccano i chili di patate sbucciate, le raccolte fondi nei negozi attorno alla scuola e le tantissime riunioni, dalle quali, però dovevo rientrare sempre per ora di cena. Perché il compagno Viti era di larghe vedute, sì, ma per la sua bimba mica tanto… Quando compii 18 anni, chiesi a mio padre come regalo la tessera del PCI. Lui ne fu molto felice anche perché io mostravo di esserne convintissima. Erano gli anni di Berlinguer: entusiasmanti per chi, come me, ci credeva. All’epoca della “Bolognina”, nel 1989, quando avvenne la svolta nella sinistra italiana e il Pci si sciolse, ero già sposata. Le tre anime uscite fuori dalle ceneri del Pci crearono una situazione quasi tragica nella mia famiglia. Mio marito, operaio nei Nuovi Cantieri Apuania, che era stato segretario della “cellula” del partito in fabbrica, decise che Occhetto aveva ragione e si schierò con lui. Io, che non ero d’accordo con lui, quasi volevo separarmi. Cominciammo a discutere per tutto, persino per la Juve, che era la nostra comune passione. Quando ci fu il congresso e vennero presentate le mozioni delle tre nuove anime della sinistra, io scelsi la mozione Ingrao, mio padre quella Cossutta e mio marito, ovviamente, quella di Occhetto. ‘Na famigia ruvinata! (una famiglia rovinata). Come andò a finire si sa e fu dura. Alla costituzione del partito di Rifondazione Comunista, diverso tempo dopo, io aderii e feci la mia parte, aiutata da quegli straordinari “saggi” carraresi che erano il Memo, Calzolari e Pantera, veri capisaldi della sinistra locale. Ma a casa c’era poca serenità per i miei impegni politici e, alla fine, “il muso” sempre un po’ lungo di mio marito, che mai mi avrebbe impedito alcun che, ma che sapeva come fare per farmi cambiare idea, ebbe la meglio e lasciai l’incarico in Rifondazione. E adesso, riguardo all’indietro so che è andata bene così perché la mia rinuncia ci permise di stare vicini fino all’ultimo.