La maledetta estate del 1944 a Forno cominciò il 13 giugno quando l’esercito nazi-fascista compì il primo di una serie di eccidi che lasciarono una terribile scia di sangue nella provincia di Massa Carrara. La cronaca dettagliata di quella giornata fu raccontata da una sopravvissuta: Elvia Alberti, alla scrittrice e giornalista Angela Maria Fruzzetti e fa parte della raccolta di testimonianze delle altre donne di Forno che si salvarono dalla strage nella quale persero la vita 72 persone e che, in seguito, riuscirono a sopravvivere e ad aiutare i propri familiari prendendo la via delle montagne, oltre la Tambura, per arrivare a Parma in cerca di cibo. Tutte le testimonianze fanno parte del libro di Angela Maria Fruzzetti Pagine…da non dimenticare – Massa ricorda.
“Elvia lasciò un’impronta nel mio cuore, come accadde a tutti quelli che l’hanno conosciuta – scrive Angela Maria Fruzzetti –. Da sempre iscritta all’Anpi, militò nel Pci prima e poi nel Pd. Era originaria di Forno e fu una testimone dell’eccidio del 13 giugno 1944: un’esperienza che segnò lei, come tutti gli altri abitanti del paese che si salvarono, dando loro la forza di affrontare i lunghi viaggi sulla via della fame, nell’inverno del ’44-’45, a piedi, fino a Parma, per procurarsi un po’ di cibo e aiutare chi era rimasto vivo fino alla Liberazione dell’aprile del 1945. Elvia, all’epoca, aveva 14 anni. Il 13 giugno 1944, all’alba venne sbattuta in strada, seminuda, insieme alla madre e al fratellino, e al resto della popolazione rastrellata dai tedeschi, affiancati da italiani fascisti. E questa è la sua voce”.
I partigiani scesero a Forno, se la memoria non m’inganna, il 10 giugno 1944, mentre il paese si preparava alla festa del patrono Sant’Antonio. Io stavo facendo l’erba per i conigli quando li vidi scendere dal versante di fronte, sul lato opposto del fiume. Quel giorno occuparono la caserma dei carabinieri. Con la mia famiglia abitavo proprio nel gruppo di case poste all’ingresso del paese, accanto alla caserma. E chi erano questi partigiani? Mi chiedevo. Chi erano tutti questi giovani? Si seppe, in seguito, che erano scesi in paese per colpa di una spia. Una staffetta era infatti salita alla valle degli Alberghi, dove si trovavano, e li aveva avvisati di scendere, che gli americani erano vicini, per la liberazione. Invece non era vero. Gli americani erano sempre a Pisa. I partigiani si fidarono e scesero dai monti. Si fermarono un paio di giorni in paese e la mattina del 13 giugno avrebbero dovuto ritirarsi di nuovo in montagna, agli Alberghi. Erano stati ingannati da spie nemiche, spie fasciste. Li avevano fatti scendere al piano per poi far scattare l’imboscata delle truppe nazifasciste. Era il 13 giugno 1944. Di buon’ora, alle quattro circa, si sentì bussare alla porta. “Fuori, fuori, tutti fuori”. Spaventati, lasciammo le case mezzi nudi, così com’eravamo. Era giugno e faceva caldo. Con le armi puntate, ci portarono nei pressi di Sant’Anna. Mio fratellino di tre anni aveva la febbre. A un certo punto, da dietro la chiesetta, spuntarono due tedeschi che risalivano la strada spintonando un giovane partigiano con il calcio del fucile. La paura lasciò spazio al terrore quando la strada divenne un brulichio di truppe tedesche e fasciste. Mio fratello aveva la febbre alta e aveva sete. Mia madre, che era incinta, chiese dell’acqua. Un tedesco le diede uno spintone e la scaraventò dentro un cespuglio di rovi. L’aiutai a liberarsi dalle spine dei rovi conficcate nelle carni. Rivoli di sangue rigavano il suo corpo. Ma non piangeva, mia madre. Ci teneva stretti, vicini, insieme. Diceva che tutto sarebbe finito, presto. Di fronte a mio fratello piangente e sofferente, mi feci coraggio. Affrontai i tedeschi e chiesi se potevo andare a casa a prendere dell’acqua. Mi lasciarono andare. Non era solo di acqua che avevamo bisogno. Io e la mamma avevamo indosso solo una misera sottoveste. Avevamo bisogno di coprirci con uno straccio, un vestito. Giunta sulla porta di casa, trovai due tedeschi che impedivano l’accesso tenendo una gamba alzata contro lo stipite. Non mi fermai. Scivolai sotto le gambe dei due soldati. Un terzo, più in là, fece cenno agli altri di lasciarmi fare. In casa mi vestii frettolosamente, presi un abito per mia madre. Cercai di salvare un sacchetto di riso e due pezzetti di pane per il mio fratellino. Scesi le scale. Ma i tedeschi, sulla porta, mi strapparono dalle mani il sacchetto e lo rovistarono. Poi me lo restituirono. Restammo a Sant’Anna, in fila con i rastrellati fino alle 11 del mattino. Poi ci unirono al resto della popolazione, già ammassata nella strada oltre il fiume. C’era una lunga fila di donne e bambini che dalla casa socialista arrivava fino al cimitero. Mia madre cercava di proteggerci come poteva, nascondendoci dietro di lei. I nazisti disposero le mitragliatrici lungo il bordo della strada, puntate verso la popolazione. Alle cinque del pomeriggio dissero che ci avrebbero fucilati tutti. Si udivano colpi e spari ovunque. Un inferno. Accanto a noi c’era Anna, la moglie del maresciallo dei carabinieri Ciro Siciliano, con i due bambini. Quando Ciro seppe del rastrellamento della popolazione, di sua moglie e dei bambini, si presentò al comando tedesco, indossando la divisa. Lo aspettavano, lo avevano chiamato forte con i microfoni. Lo aspettavano per farlo prigioniero. Sua moglie era di famiglia partigiana. Arnaldo Pegollo, fratello di Anna, venne decorato con la Medaglia d’Oro alla lotta partigiana, alla fine della guerra. Come ultimo desiderio, il maresciallo chiese di poter salutare Anna e i bambini. Lo fece e poi lo portarono via e lo imprigionarono nelle celle della caserma con altri giovani rastrellati. Si avvicinavano le cinque del pomeriggio, l’ora dell’esecuzione. Eravamo terrorizzati. Ad un certo punto giunse sul ponte una grossa jeep. I tedeschi parlavano e discutevano. E poi la sentenza: la popolazione doveva essere liberata. Si sentivano spari ovunque. Il comandante dei partigiani Tito, nella ritirata, si trovò accerchiato dal nemico e rimase ucciso in battaglia, in località Pizzo Acuto, di fronte alla Filanda. C’è chi dice che si sia sparato da solo l’ultimo colpo rimasto in canna per non consegnarsi al nemico, ma è molto più probabile che sia morto per piombo tedesco perché la battaglia, quel giorno, fu feroce e sanguinosa, dagli Alberghi al Vergheto, fino giù in paese. A sera, i tedeschi ci lasciarono andare e dissero che potevamo tornare alle nostre case. Nessuno rientrò. Eravamo spaventati e cercammo rifugio nei casolari a monte, verso la Rossola e Pian dei Santi. Nell’eccidio del 13 giugno morì anche il fratello di quello che, in seguito, diventò mio marito. Si chiamava Giuseppe Lorenzetti e aveva 21 anni. Avrebbe potuto salvarsi, perché era rimasto ferito. Cadde sul mucchio e riuscì a sgusciare via, rifugiandosi in un anfratto, poco distante. Ma quando la follia nazista ebbe compiuto il massacro, qualcuno gridò, in italiano: “Se c‘è qualche ferito alzi la mano, siamo qui per aiutarlo”, Giuseppe, come raccontò poi Franco Del Sarto, sopravvissuto all’eccidio, si fece notare e il suo cranio fu sfondato da una raffica di mitra.
Giuseppe Lorenzetti aveva scelto la lotta partigiana dopo la disfatta dell’8 settembre del ’43. Era un renitente. “Ci sono i tedeschi” avevano annunciato in casa i suoi fratelli quel 13 giugno. Giuseppe stava fumando e dalle sue labbra cadde il mozzicone di sigaretta che suo fratello Primo, quello che diventò mio marito, ancora oggi conserva come una reliquia. I suoi fratelli decisero di lasciare il paese e rifugiarsi nelle montagne. Lui no. Non voleva lasciare sua madre da sola. Disse ai suoi fratelli di andare, che lui sarebbe rimasto a casa, nascosto. In seguito tre soldati delle SS bussarono alla porta e si presentarono a sua madre, cercandolo. Lei disse che la casa era vuota, che non c’era nessuno. La spintonarono facendola cadere per le scale e lei che era incinta e abortì. I tedeschi prelevarono il ragazzo e lo uccisero a Sant’Anna.
La lunga estate del ’44 sembrava non avere fine. La popolazione era stremata, per il terrore, la fame. La gente, di notte, aveva paura a dormire nelle proprie case. Era d’agosto. Eravamo verso Pian dei Santi, quando scorgemmo nella strada alcune jeep tedesche, dirette verso la zona dei Canali. Il terrore pervase l’intera popolazione di Forno. E la sera, tutto il paese salì lassù, ai monti. Ci rifugiammo dentro la cava dell’onice. Il cunicolo era stretto e ci calammo uno dopo l’altro. Poi mio padre Bruno insieme a un compagno partigiano, Natalin, chiusero l’ingresso con un masso e si allontanarono. La grotta era una meraviglia! Si aprivano spazi immensi, gallerie straordinarie. Non ho mai visto in tutta la mia vita uno scenario così bello. Dal soffitto scendevano tante statue che sembravano Madonne piangenti. Sotto i piedi avevamo la sabbia come al mare e in lontananza si sentiva un forte rumore d’acqua. Passammo tutta la notte nelle viscere della montagna. Dopo alcuni giorni si seppe dell’incursione a Guadine, dove i tedeschi, ancora una volta, avevano sfogato la loro follia omicida, ammazzando 13 persone e incendiando tutto il paese. Successivamente, nel periodo dei viaggi della fame oltre le Apuane, mio babbo passò il fronte portando con sé mio fratello Arturo, meglio conosciuto come Vanno, che aveva 12 anni. Ci ritrovammo tutti insieme, a guerra finita.
Da Pagine da non dimenticare – Massa ricorda (2008).