Polpetta: il nome evoca la materia prima, con la quale, anticamente, si preparavano le polpette, ossia la polpa, che è la parte più tenera dell’animale. La storia dell’alimentazione racconta come, questo piatto, sia di origini nobili e non popolari, come si potrebbe pensare. Le polpette erano un piatto pensato e realizzato per soddisfare le esigenze dei ricchi signori che, giunti ad una certa età, avendo perso i denti, potevano nutrirsi di carne senza problemi. Una cosa è certa: le donne del popolo, un po’ per bisogno e un po’ per quella creatività che proprio dal bisogno nasce, hanno saputo inventare tantissime varianti, partendo dalla ricetta principe che era a base di polpa di carne scelta. Oggi la grande industria alimentare, attraverso la catena del freddo dei congelati e surgelati o anche del fresco, offre alla clientela una vastissima scelta di polpette che va dalla carne di vitello a quella di pollo, al prosciutto cotto e anche al pesce.
Un detto tipico carrarese recita: “Frita ad è bóna ank una zavata” (Fritta è buona anche una ciabatta). Indubbiamente ciò è vero, ma chi assaggia le polpette della nostra cucina tradizionale, non le dimentica facilmente, che siano di carne macinata, di bollito tritato o di patate. Un tempo nei quartieri del centro storico, era consuetudine sentire il profumo del cibo che si spandeva nell’aria e, soprattutto la sera, per cena, l’odore delle polpette: spesso e volentieri di patate, le più economiche, ma egualmente saporite, arricchite dalla presenza nell’impasto di salsiccia o di “mundiòla”, la mortadella di Bologna e anche quelle preparate con il bollito tritato: le “ polpéte kól lés” ( le polpette col lesso), arricchite di prezzemolo, aglio, mollica di pane bagnata nel latte, pepe, noce moscata, uova, pecorino grattato e a volte anche con il parmigiano. Le polpette avanzate la sera, specialmente quelle fatte di bollito, fritte o “akomdáte” (accomodate) dentro il sugo, venivano inserite nel cantuccio del pane “ Kantón”, che i lavoratori del marmo si portavano sul luogo del lavoro ed erano una golosa variante nella ripetitiva alimentazione del tempo. Le famiglie benestanti, quasi sempre la domenica, preparavano delle piccolissime polpettine di carne condite con parmigiano, sale, pepe, poca noce moscata e mollica di pane cotta nel latte. Il composto si amalgamava con una o due uova. Si preparavano quindi delle piccole polpettine di forma rotondeggiante chiamate ” rospeti” (ranocchietti) che, dopo essere state passate nella farina, venivano cotte nel sugo di carne, che serviva per condire le lasagne, i topéti (gnocchi) o gli stringoni. Si aveva così il primo ed il secondo piatto. Altrimenti le polpette si cuocevano insieme ai pisellini di stagione, pian piano, dentro la casseruola di terracotta. Le polpette di carne scelta si preparavano battendo con la mezzaluna la carne, fino a che non si presentava ben sminuzzata. Nelle case operaie comparivano sulla tavola in occasioni eccezionali, quali una malattia o subito dopo il parto delle donne. Il termine “rospéti” veniva usato, probabilmente, in riferimento alla forma rotonda e un po’ schiacciata che queste polpettine assumevano durante la cottura.
Le polpette, in special modo, quelle di patate, insieme alle frittelle di baccalà, alle acciughe con aglio, olio e prezzemolo e al baccalà marinato, possono essere annoverate quale alimento tipico da cantina. Pochissimi anni fa, chi passava da via del Plebiscito verso sera, poteva godere di quell’intenso, gradevole e inconfondibile profumo di polpette di patate, che usciva dalla cantina della Giovanna di Sainè. Delle polpette si sono interessati anche personaggi illustri come il Maestro Martino de Rossi da Como, cuoco del Camerlengo Patriarca di Aquileia, che nel XV secolo scrisse il suo: “ Libro de Arte Coquinaria”. Il testo, scritto in italiano volgare, cita nel primo capitolo, non solo le ricette per preparare le polpette, ma anche, secondo l’autore, quali erano i tagli migliori della carne per ottenere un ottimo risultato. Maestro Martino è il primo in assoluto, a citare le polpette nella storia della letteratura culinaria italiana. L’altro personaggio illustre è il famosissimo Pellegrino Artusi con il suo: “La Scienza in cucina e l’Arte del Mangiar bene” (1881): un libro di ricette ancora oggi valido punto di riferimento, per chi vuole cimentarsi nella preparazione di piatti eccellenti e genuini come Dio comanda. Esaustivo, pieno di aneddoti, di chiari riferimenti ed anche di schietta ironia che possiamo constatare nella sua amena presentazione delle polpette: “Non crediate che io abbia la pretensione d’insegnarvi a far polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco, il quale fu forse il primo a dare il modello al genere umano”. Evidentemente l’Artusi conosceva la fiaba popolare che in epoca diversa, venne raccolta da Italo Calvino nel suo volume “Fiabe Italiane” dal titolo: “Le polpette di zio Lupo” ( la storia di una bambina troppo golosa che non resiste al profumo delle frittelle da portare a Zio Lupo e se le mangia tutte, sostituendole con polpette di somaro e finendo mangiata dal Lupo non appena scoperto l’inganno)
Polpette di patate
Dosi per sei persone:
1 kg di patate, quattro uova, una manciata di prezzemolo, uno o due agli, un pizzico di noce moscata, una salsiccia oppure un etto di mondiola (mortadella di Bologna), pecorino e parmigiano grattati 50 g, sale, farina, olio extravergine di oliva.
Preparazione:
Lessare in acqua salata le patate con la buccia, a cottura, sbucciarle e schiacciarle ben bene; versare il composto ottenuto in una terrina, unire le uova, il prezzemolo e l’aglio tritati finemente, un pizzico di noce moscata, la salsiccia sbriciolata, oppure la mondiola tritata. Unire un pizzico di sale e, amalgamare il tutto fino ad ottenere un impasto semi duro. Con un cucchiaio dividere in parti uguali l’impasto; con le mani formare delle polpette di forma un poco allungata, passarle nella farina e friggerle in una padella di ferro con olio extravergine di oliva bollente. Far dorare le polpette da ambedue i lati, scolarle su carta gialla di paglia e servirle calde. Secondo il proprio gusto, si può aggiungere o meno una spolverata di sale fino.
© Foto di Vinicia Tesconi