L’unica donna testimone non ha dimenticato l’unica donna uccisa in quella terribile carneficina del 16 settembre 1944. “Mi è rimasta impressa una donna che urlava, disperata – ricorda Paola Vignali (1938) –. Indossava un abito a fiori rossi e gialli, aveva i capelli chiari. La spintonarono facendola scendere dal camion. Le sue urla non le ho dimenticate mai. La spinsero con forza dentro la fossa, insieme agli altri prigionieri. Poi spararono. Quella fossa fu ricoperta di terra, ma chissà quanti erano ancora vivi!”.
La donna che urlava disperatamente quel giorno, rimasta impressa nella memoria di Paola Vignali, che aveva sei anni non ancora compiuti, era l’unica donna tra le 147 vittime delle fosse del Frigido: si chiamava Albina Maria Guerisoli, di Zeri, 55 anni, colpevole di non aver pagato il dazio della macellazione.
La vita di Paola Vignali è stata segnata da queste terribili scene a cui ha assistito. Figlia di un pescatore, ricorda ancora la sua casa, una baracca di legno sulla spiaggia in fondo al Brugiano. “Di quella guerra ricordo mia madre con il materasso in testa perché ci avevano buttati fuori dalla baracca; rammento i fili spinati con cui recintarono quella spiaggia e le notti successive passate sui materassi stesi a terra, in una cantina buia. Andammo ad abitare vicino al Frigido. Ero sempre in giro, in quel quartiere polveroso, e seguivo mio fratello, sei anni più grande di me”.
Bambini e ragazzi a grappoli, sparsi nella desolazione della guerra. “Quel giorno eravamo al fiume. Strani rumori ci distolsero dai nostri giochi tra i sassi. Corremmo per vedere, nascondendoci dietro dei cespugli. Poco distante dal greto del fiume, c’era una buca enorme, grande come un cratere. E alcuni uomini continuavano a scavare. Sopraggiunse un camion carico di persone. Le fecero scendere con brutalità, spingendole dentro il cratere, tra le urla disumane di quella povera gente. Mi è rimasta impressa una donna. Indossava un abito chiaro, a fiori stampati. Urlava, urlava disperatamente, e la gettarono con sprezzo dentro la fossa. Quella scena e quelle urla hanno accompagnato la mia infanzia, la mia adolescenza e il resto della mia vita, perché ancora ho tutto nelle orecchie, negli occhi, nel cervello. Quando furono dentro la buca, ammassati uno sull’altro, i nazisti si disposero in cerchio intorno alla fossa e cominciarono a sparare con il mitra. Li uccisero, sotto i nostri occhi pietrificati, inorriditi. Stavamo zitti, ammutoliti dietro la siepe perché sapevamo che se ci avessero sorpresi avremmo fatto la stessa fine di quelle persone trucidate senza pietà. Il lago di sangue del terribile massacro, venne ricoperto con la terra. Quei corpi furono seppelliti tutti insieme dentro la fossa, subito dopo la carneficina. Io stavo aggrappata a mio fratello, avevo paura. Si udì il rombo di un aereo che lanciò bombe. Una scheggia colpì a morte un ragazzo che, come noi, stava nascosto dietro la siepe, poco distante. Un nostro compagno di giochi”.
“Abbiamo vissuto gli orrori della guerra – conclude Paola Vignali –, siamo sopravvissuti alla follia degli eccidi ma l’eco di quella disumanità ci è rimasto dentro, giorno e notte, e non ci abbandonerà mai. Non dovremmo avere certi ricordi, fanno troppo male”.
Quella delle Fosse del Frigido, a San Leonardo di Massa, è una delle stragi più efferate compiute dai nazifascisti in terra apuana. 147 detenuti comuni e politici, rappresentanti di 61 province italiane e cittadini di sei diverse nazionalità: albanesi, greci, italiani, libici, slavi e svizzeri, ospiti del carcere mandamentale del castello Malaspina, furono barbaramente trucidati. 147 persone considerate inutili, un peso, sassi pesanti di cui disfarsi, e sul muro, 147 sassi ne portano il nome. Quel crimine non trova nessuna motivazione di rappresaglia o di lotta antipartigiana.