I problemi alimentari di questo millennio, legati in particolar modo alla diseguale ripartizione delle risorse, sono destinati a rimescolare le sorti dei popoli, sia in Italia, sia nel resto dei paesi Europei. Nessuno può nascondere l’urgenza di questo grande problema, destinato ad impegnare la responsabilità di coscienze, che possano farlo proprio ed affrontarlo. Come un tempo i giovani popoli premevano ai confini dell’Impero Romano minacciando di sommergerlo, altri popoli, oggi, al limite del continente, si affacciano spinti dalla necessità di conquistare nuovi spazi di sopravvivenza, mentre nell’Occidente, il terreno culturale si è molto impoverito e, soltanto sparuti gruppi di giovani, riescono a leggere in questi mutamenti epocali, il segno dell’esasperata società dei consumi. Il nostro augurio è quello, che un nuovo modello di sviluppo, produzione e ripartizione delle risorse alimentari si affermi.
Positive contaminazioni, come dimostra il passato della storia dell’uomo, potranno produrre non solo una rivoluzione culturale, ma anche alimentare. Sicuramente anche le cucine tradizionali regionali, tra le quali si colloca la cucina carrarese, subirà un’evoluzione, una positiva contaminazione, mantenendo al contempo, come potremmo verificare nella storia del “panigaccio”, una linea primigenia, che dai tempi più bui della storia dell’uomo nell’area Apuana è giunta fino a noi.
Origini del Panigaccio
Nel neolitico o età della pietra levigata, l’uomo comincia a seminare e lavorare la terra. Ha imparato che i semi dei cereali, che già conosce in forma selvatica, orzo, spelta, avena, farro, miglio, messi a nuova dimora sotto la terra, producono dopo un lasso, di tempo altre piante, quindi altre spighe. Scoprono anche, che, i chicchi di questi cereali arrostiti o meno, sfregati tra due pietre, per togliere il glume, la pellicola che li ricopre, originano una polvere grossolana che, mescolata ad acqua forma una pappa. Già si producono, con la tecnica del colombino, recipienti capaci di resistere al fuoco e anche lastre arrotondate. Certamente i primi abitanti delle Apuane, usarono questi arcaici utensili da cucina, arroventandoli sul fuoco, provando a cuocere quell’impasto. Una volta cotta, questa pappa si trasforma in una specie di cialda, che rappresenta il primo pane non lievitato e senza condimento conosciuto dall’uomo. Nel tempo, con la stessa tecnica, nel territorio apuano, si continuò a cuocere questo prototipo di pane, usando anche altre farine: grano, segale, castagne e anche ghiande. Queste ultime venivano, prima, bollite per togliere l’amaro, poi sbucciate, spellate ed infine tostate, per essere ridotte in farina.
In epoca romana gli utensili adoperati per i panigacci, prendono nome di “testi” perché “testu” era il termine latino con cui si indicava il vaso di terracotta e anche il coperchio del vaso. Ancora oggi, spesso, per indicare la teglia, che un tempo era rigorosamente di terracotta, si usa il termine dialettale “tèst”. Nelle varie zone della provincia di Massa e Carrara, si adoperano testi di materiale diverso: terracotta, ferro, pietra e anche ghisa. La longevità di questo piatto, ci racconta della povertà di una popolazione che ha sempre dovuto fare i conti con una montagna avara di risorse, o come nel carrarese, con l’estrazione del marmo, attività che dai tempo più remoti, ha sempre sottratto braccia alla coltivazione della terra. Un popolo che non poté per moltissimo tempo neppure sfruttare i vantaggi delle aree pianeggianti costiere perché per secoli, insalubri e paludose. Ciò nonostante, le donne locali, con i testi hanno sempre compiuto miracoli: utilizzando una minima quantità di farina, riuscivano a sfamare l’intera famiglia, realizzando, appunto, i panigacci.
I panigacci potevano essere tagliati come lasagne e, dopo averli bolliti, venivano conditi con sugo di funghi o pesto, alla maniera dei testaroli. Ancora oggi, tantissime famiglie possiedono i testi di ferro e spesso, li utilizzano per preparare questo semplice e gustoso piatto. Naturalmente, oggi, i panigacci vengono serviti accompagnati da salumi, formaggi e altro. In passato, invece, l’unica concessione era un gocciolino d’olio o una fettina sottile di lardo, sebbene non mancassero le eccezioni e chi se lo poteva permettere, li condiva con olio e pecorino grattugiato. Questo tipo di pane primitivo, in maniera simile o quasi, era in uso presso quasi tutte le popolazioni italiche preromane e anche presso i romani. È documentato che nel parco delle capanne sul Palatino preparavano i panigacci e se ne alimentavano. Solo in seguito, dai Greci si imparerà la preparazione del pane lievitato e arricchito di semi quali: cumino, papavero, ruta, ginepro, anice, finocchio e tanti altri.
Ricetta dei Panigázi (panigacci)
Ingredienti per quattro persone: 4 etti di farina di grano, acqua, sale.
Preparazione:
Dopo aver setacciato la farina, versarla in una zuppiera, aggiungere acqua quanto basta per ottenere un impasto fluido, ma non liquido e poi, aggiungere il sale fino. Porre sul fuoco i testi a due piatti, girarli prima da un lato e poi dall’altro per scaldarli.
Quando saranno pronti, versare una grossa cucchiaiata dell’impasto, sul piatto interno caldo del “testo” che rimane sul fuoco; coprirlo con l’altro, stringere i bracci dei testi tanto da schiacciare in modo uniforme l’impasto, cuocere da entrambe le parti per pochi minuti.
Aprire i testi e con la lama del coltello togliere il panigaccio, arrotolarlo e servirlo condito con olio extravergine di oliva e pecorino stagionato grattugiato, oppure con salsiccia, lardo o pancetta. Oggi i panigacci, vengono serviti anche ripieni di marmellata oppure di nutella.
Per ottenere degli ottimi panigacci occorre che i testi siano belli caldi e devono essere unti internamente usando una mezza patata immersa nell’olio, oppure con stoppa sempre intinta nell’olio. Anticamente si usava per questa funzione una cotica di lardo.
© Foto di Cristina Maioglio e Vinicia Tesconi