A Carrara, il colera, arrivò da Viareggio, dove a sua volta era stato importato da Genova, in entrambi i casi via mare e da soldati. L’impatto dell’epidemia di colera sull’Italia nel 1854 fu devastante. Quasi 300 mila vittime registrate nelle tre ondate cicliche del contagio nell’arco di due anni. 150 mila solo nella prima fase, quella che interessò anche la Toscana e che durò poco più di due mesi. Viareggio e Carrara contarono, in quel periodo, 500 vittime ciascuna e dovettero adeguarsi alle misure di contenimento del contagio concordate dai vari stati italiani ed europei.
Quella del 1854 era la terza delle sette epidemie di colera che si susseguirono in Europa, nel corso dell’’800, sei delle quali giunte anche in Italia. Non era sconosciuta, quindi, la terribile malattia che uccideva per disidratazione, quando scoppiò il terzo focolaio, sebbene le informazioni scientifiche fossero ancora abbastanza nebulose. La confusione più grande veniva fatta sul modo in cui avveniva il contagio: aria malsana, secondo alcuni medici; esalazioni tossiche provenienti dalla decomposizione di materiali organici, secondo altri, ma in molti erano convinti che bastasse toccare un malato di colera o un oggetto toccato dal malato per infettarsi e in tantissimi cominciarono a colpevolizzare i vestiti sporchi delle classi più povere, considerati strumenti di trasmissione della malattia. Qualcuno, invece, avendo scoperto che l’origine delle epidemie era avvenuta nelle Indie Orientali, decretò che a favorire la diffusione erano condizioni meteo e ambienti simili a quelli in cui il batterio si era originato. Lungi ancora dall’aver isolato il vibrione del colera e quindi dal comprendere che era la contaminazione con i batteri fecali e il contatto orale con essi a causare l’insorgere della malattia, molti medici avevano, comunque, intuito che l’igiene era sicuramente un’arma di difesa contro la malattia.
L’epidemia di colera può essere considerata il primo risultato del primordiale processo di globalizzazione avviato, appunto nel XIX secolo. Non a caso il colera venne chiamato malattia della rivoluzione commerciale: i progressi dell’industria applicati, in particolar modo al sistema dei trasporti via mare, aveva facilitato gli spostamenti di persone e di merci nelle zone più remote del mondo e spesso i militari o i mercanti che rientravano in patria furono i vettori che portarono il colera in Europa e nel resto del mondo. Le misure che i regnanti italiani ed europei presero per contenere l’epidemia dimostrano, invece, come su questo fronte i progressi non siano stati poi così eclatanti. I primi interventi furono l’imposizione di cordoni sanitari marittimi e terrestri e l’obbligo di quarantena per tutte le navi provenienti da aree sospette, con pene capitali per chi violava le disposizioni. Per poter sbarcare in un porto italiano era necessario presentare una patente in cui si attestava che a bordo non c’era alcun caso di colera. Cionondimeno qualche marinaio o contrabbandiere ammalato che riusciva a sbarcare di nascosto c’era sempre e i contagi si diffusero ugualmente tanto da dover ripristinare i lazzaretti – quelli che erano stati usati per l’epidemie di peste dei secoli precedenti – per cercare di circoscrivere le zone in cui stavano gli ammalati e, di conseguenza i contagi.
A Carrara il colera fu portato dai marinai dal navicello viareggino “Marianna”, che scesero sulla spiaggia di Marina di Avenza, come si chiamava allora la zona costiera carrarese, grazie a un comandante che, nella patente sanitaria, aveva dichiarato il falso. Era il 26 luglio del 1854: il contagio dilagò in un batter d’occhio e fu necessario costruire in fretta un nuovo cimitero che rispondesse a norme igieniche più moderne per accogliere le vittime del colera.
Lo storico Beniamino Gemignani ha ricordato che le norme severe sull’igiene pubblica erano partite proprio dalle epidemie di colera, per opera degli Estensi, signori della città e che queste comprendevano i sistemi di sepoltura. Venne soppresso l’uso di seppellire le persone sotto il pavimento delle chiese o nei piccoli orti adiacenti alle stesse e vennero istituiti i cimiteri urbani. Secondo la testimonianza dello storico avenzino Pietro Di Pierro: “Il cimitero provvisorio per colera fu creato ad Avenza nel 1854 in un terreno tra via Campo d’Appio, la vecchia Aurelia e la Strada Nuova Calessabile, poi assorbita nel viale XX Settembre, praticamente dietro al cinema Odeon. I miei bisnonni (Pantera, pastori antonesi) lo acquistarono per poco, per questo motivo (e l’aia era detta “del lazzaretto”). Il cimitero alla Centrale (che poi ospitò la GIL) sebbene progettato in seguito al colera (nel 1855 fu acquistato il primo terreno da Margherita Fabbricotti), dovette aspettare per l’iter burocratico e fu aperto solo dopo l’unità d’Italia, nel 1872, mentre quello di Turigliano fu aperto nel 1901, proprio in considerazione che il cimitero di Avenza, dovendo servire anche per Marina, era nato insufficiente e con troppe abitazioni vicine”. Un cimitero venne creato anche in una parte di piazza Farini e altri due cimiteri vennero istituiti a Castelpoggio e a Bedizzano.
Si imposero i funerali in notturna nella convinzione che questa modalità limitasse i contagi e poi vennero stabilite regole precise per la vita sociale: di molti generi alimentari venne vietata la vendita nel mercato giornaliero di piazza delle Erbe, le cantine vennero chiuse, i mendicanti e i vagabondi vennero cacciati dalla città, le navi dovevano stare in quarantena e ovunque si accendevano fuochi per bruciare abiti considerati infetti.
Il commercio ne ebbe contraccolpi mortali: i prezzi si alzarono e la povertà si estese di pari passo con la rabbia dei cittadini che cominciarono a saccheggiare e a ribellarsi in maniera violenta alle regole anti-contagio. La gente continuava a morire, i notai non accettavano più i testamenti per non dover incontrare gli ammalati moribondi e ai funerali ci andavano solo i preti perché anche gli addetti alle sepolture temevano che la vicinanze con i morti di colera potesse causare il contagio. Non mancarono risse e ribellioni popolari.
Spesso gli ammalati ormai senza speranza venivano abbandonati nelle campagne per toglierli dalle case e questo determinò la creazione di una camera mortuaria nella quale venivano raccolti i cadaveri in putrefazione per dar loro sepoltura.
Il bollettino carrarese è drammatico: nel primo mese dall’inizio dell’epidemie si contarono 213 morti, 122 persone guarite e 20 in cura. Si aprì un lazzaretto a San Francesco, all’interno del convento. Vennero messi cordoni sanitari ad Avenza e tra Sarzana e Carrara e alcuni, esasperati dalle misure di contenimento, ne chiesero con forza la soppressione.
L’epidemia di colera del 1854 si esaurì entro la prima settimana di novembre e tutte le imposizioni anti-contagio vennero abolite.