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Diari Toscani

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Cronache dal Bugliolo: Michela Viti racconta la Carrara degli anni ’50

DiMichela Viti

Set 19, 2021

Ironica, simpatica, intelligente, autentica: Michela Viti è un’altra preziosissima memoria storica di Carrara, la sua città, il luogo in cui, praticamente la conoscono tutti. Una memoria relativamente più recente, perché lei è Nata a metà degli anni ‘50, come dice il titolo del suo libro pubblicato da Numeri Unici Edizioni nel 2016, che ha riscosso un grandissimo successo, ma una memoria potentissima, perché di quei mitici anni ‘70 e ‘80 che videro Carrara brillare sotto molti aspetti, lei fu una protagonista indiscussa.
Nipote del grandissimo Manrico Viti, poeta e commediografo dialettale, ha sicuramente ereditato dalla famiglia paterna l’occhio acuto e la capacità di cogliere sempre il lato comico di ogni situazione.
Le molte fatiche e sofferenze attraverso le quali è stata costretta a passare non le hanno mai portato via la sua meravigliosa capacità di sorridere. Ha conosciuto i grandi del suo tempo e tanta straordinaria gente comune. Ha sorriso, scherzato, condiviso il suo cuore con tutti e di ognuno e di quel mondo non troppo lontano, ma ugualmente scomparso, ha un ricordo: unico possibile e doveroso tributo e fondamentale dono per chi, quel tempo, non lo ha minimamente conosciuto. Questo dono Michela Viti lo farà dalle pagine di Diari Toscani, ogni domenica, nella rubrica Cronache dal Bugliolo, il luogo in cui è nata, a metà degli anni ‘50.

Il Bugliolo (in dialetto cararino ‘l Buil) è un quartiere di Carrara che lambisce la Via della Foce e Via Dell’Amico. Molto vicino, da un lato, alla Scuola del marmo e al vecchio ospedale. Io ci sono nata a metà degli anni ‘50. Allora era anche molta campagna, dalla parte della Via della Foce e, ricordo, c’era anche quello che noi chiamavamo il fiume e che, semplicemente era il canale non ancora tombato. Un microcosmo per me bellissimo. Io ho visto la luce al numero civico 12, una casa con diversi appartamenti, un unico servizio igienico per tutti e neanche l’acqua corrente. Pare una roba da terzo mondo oggi, che, se si spegne improvvisamente un cellulare ci sentiamo persi. Nata in anticipo (e ancora mi domando perché avere fretta…) e con problemi alla gambe scoperti presto, quindi, con vari gessi da piccolissima, praticamente fui quasi subito nominata a “furor di popolo” Principessa del Bugliolo. Viziatissima da tutti, chiamavo nonni e zii chi non mi era neanche parente lontano, ma che erano lì, tutti pronti ad accogliermi e farmi giocare. C’era il nonno Almo, ‘l berz’les, che mi chiamava Girardengo, per via che non ero mai in casa e girovagavo in largo e in lungo, persino fino alla Cavetta, che era proprio all’inizio della Via della Foce. E poi la zia Bià, con lo zio Achille e la nonna Minè con sua figlia ‘Ndrè al pian terreno e la magica nonna Lina con Pilade ed Egì proprio dirimpettai miei.

Capitava che a pranzo mangiassi il brodo dalla zia Bià (e Achille mi aveva insegnato a berlo dal piatto per l’orrore della mia mamma…), oppure i fantastici cazalà della nonna Minè, un pezzetto di ciccia dalla Elsa e un cuciar d’ cafè dalla nonna Lina. Così arrivavo a casa bella che pasciuta. Mia madre assolutamente aveva voluto che dicessi “papà” invece che babbo perché faceva più fino, ma mio padre, terribile, mi aveva insegnato, al segnale del suo fischio in fondo al vicolo, a salire su un panchettino, affacciarmi e dire a mia madre: “O mà but zù la minè che al ven‘l bà!”. Avrò avuto poco più di due anni. Camminato tardi, ma parlato presto, secondo la leggenda prima di un anno, in ospedale a Viareggio per una visita.
Avevamo molto poco, neanche l’acqua corrente in casa all’inizio, ma stavamo bene, ci volevamo bene. Avevo un’amica del cuore (non dico il nome perché è molto conosciuta nella city) con cui mi “pistavo” ogni tre per due.
Andavamo a benedire le palme che erano enormi, più grandi di noi e piene di roba, tutte belle precise, eleganti, con fiocchi tra i capelli, lei mora e io rossa… deliziose a vederci. Al ritorno dalla chiesa di San Francesco avevamo i fiocchi sbilenchi e le palme distrutte perché ce le davamo in testa.
Il figlio della nonna Minè era emigrato in Inghilterra e là si era sposato ed aveva avuto un figlio, Paolo, che, in estate, veniva a trovare la sua nonna. Era carino da morire e noi due ci eravamo “innamorate” di lui. Un pomeriggio, proprio prima di partire Paolo, mentre stavamo giocando, disse che aveva una cosa da dare ad una di noi… suspance… in quel mentre mia mamma arrivava con tre belle fette di pane e marmellata per la nostra merenda. Paolo tirò fuori un anellino comperato al mercato a (forse) 5 lire e lo diede a me. Immediata la fetta di pane e marmellata lanciatami sul muso dalla mia amichetta mora… Mai più visto Paolo. Peccato avrei potuto andare in Inghilterra coi Beatles, Rolling Stones e Mary Quant. E, ‘nveza a son ‘n Marina.

© Foto a colori di Vinicia Tesconi