I romani, dopo averla conquistata, la chiamarono Tuscia, da tuscus, termine semplificato da etruscus, con il quale indicavano il popolo dell’Etruria, cioè gli Etruschi. Già negli ultimi secoli dell’impero i Romani l’avevano suddivisa in tre aree che andavano oltre i confini dell’attuale Toscana, la terra che è considerata la patria storica degli Etruschi. Nella Tuscia romana c’erano, oltre alla Toscana anche l’Umbria occidentale e il Lazio settentrionale: in pratica, il territorio compreso tra i fiumi Arno e Tevere. Le scoperte più recenti dell’archeologia hanno però confermato un’espansione della popolazione etrusca assai più ampia di quella comunemente riconosciuta che, a nord, arriva fin oltre l’appennino Tosco-emiliano e a sud scende fino alla Campania. In effetti gli Etruschi, che svilupparono la loro civiltà tra il IX e il I secolo avanti Cristo, arrivando a dominare l’Italia centrale, estesero il loro dominio o comunque il loro influsso fino alla pianura padana del Veneto e della Lombardia meridionali, fino alla Corsica e fino alla Campania nell’attuale provincia di Sorrento.
I nuovi studi archeologici hanno, quindi, collocato gli Etruschi anche nella parte più settentrionale dell’attuale Toscana, in quella terra considerata monopolio esclusivo dei Liguri Apuani. Ricerche relativamente recenti confermerebbero la presenza degli Etruschi accanto ai Liguri Apuani nelle zone intorno al fiume Magra, da sempre confine naturale tra domini diversi e caratterizzerebbe la terra apuana-versiliese come la classica zona di interscambio culturale tra due differenti civiltà. Le scoperte archeologiche che hanno rinvenuto tracce del passaggio degli Etruschi anche in terra apuana risalgono al 2001 e sono avvenute nei bacini marmiferi di Carrara. Secondo tali testimonianze i primi a capire il valore del marmo e a sfruttarlo, ben prima dei Romani, furono gli Etruschi. Nel corso di un convegno di studi per l’istituzione del Parco Archeologico delle Alpi Apuane che si tenne durante la Fiera Marmotec del 2003, venne presentata una relazione che ripercorre gli studi dei precedenti 20 anni sui primi impieghi del marmo apuano e che li colloca in epoca pre-romana sulla base di documentazioni archeologiche. Secondo la relazione, la Toscana settentrionale è stata terra fertile per l’approfondimento di questo tema grazie al rinvenimento di oltre un centinaio di monumenti funerari in marmo, di varia tipologia formale e di datazione compresa tra il VI e il III secolo avanti Cristo, molti dei quali restituiti da Pisa e dal territorio che anticamente gravitava sulla città etrusca. Anche il territorio apuo-versiliese rientra in questo areale geografico-culturale, come dimostrano le consistenti testimonianze della presenza etrusca e i numerosi cippi del tipo “a clava” provenienti da località distribuite lungo la valle del fiume Versilia.
Questa concentrazione ha indirizzato verso l’ipotesi di uno sfruttamento dei marmi versiliesi, senza però escludere che il marmo del bacino di Carrara fosse ugualmente conosciuto ed utilizzato in età pre-romana, come proponevano ricerche precedenti.
Osservazioni e datazioni radiometriche condotte dai geologi Giuseppe Bruschi, Antonino Criscuolo e Giovanni Zanchetta su paleosuoli di un ravaneto pluristratificato del monte Strinato, nel bacino marmifero di Miseglia, offrono nuove argomentazioni per ipotizzare un precoce sfruttamento del marmo di Carrara e la continuità di tale sfruttamento in epoca Romana e post-classica.
Nel 2001 Giuseppe Bruschi individuò, durante le normali attività di escavazione nell’area di Fantiscritti, in località Fossa Carbonera, una sezione di un vecchio ravaneto al cui interno erano presenti alcuni paleosuoli scuri. Questi ultimi contenevano abbondanti campioni primari e molluschi terresti (Pomatia elegans, Discus rotundatus) che indicavano un ambiente di bosco aperto. I paleosuoli, quindi, documentavano periodi di abbandono dell’attività estrattiva durante i quali è avvenuta la formazione di suoli poco sviluppati.
La datazione al carbonio 14 eseguita su campioni di carbone prelevati da questi livelli gettò nuova luce sull’inizio dell’escavazione nei bacini marmiferi di Carrara confermando anche l’interruzione dell’escavazione nel periodo dalla caduta dell’impero romano fino al tardo Medioevo. Il paleosuolo superiore rinvenuto, infatti, ha sigillato circa sette metri di detriti nei quali ci sono semilavorati di epoca romana come blocchi con marchi di cava, rocchi di colonne e altri oggetti e reperti che risalgono al 1300, quando, cioè, l’attività estrattiva riprese.
Alla base della sezione di ravaneto attribuita al periodo romano, furono rinvenuti due paleosuoli intercalati da un livello di circa dieci o 15 centimetri di scaglie di lavorazione, al di sotto del quale era presente uno spessore di 90 centimetri di ravaneto a contatto con la roccia in posto. I due paleosuoli sono datati rispettivamente dall’alto verso il basso e risultano essere corrispondenti al III e V secolo avanti Cristo. L’escavazione più antica, testimoniata dai 90 centimetri di ravaneto a contatto con la roccia in posto, fu quindi fatta risalire all’epoca preromana e trovò una coincidenza cronologica quasi perfetta con il periodo che va dal VI al III/II secolo avanti Cristo, epoca in cui nel centro etrusco di Pisa e nei territori circostanti, volterrano e versiliese, fiorì una produzione di scultura funeraria in marmo nota agli archeologi e caratterizzata da cippi a clava, a bulbo, globulari, basi di cippo a volte con decorazioni a rilievo, grandi vasi, e da prodotti più rari e di maggior impegno come statue femminili e grandi cippi figurati. Le analisi petrografiche condotte su alcuni di questi manufatti evidenziarono come questa tradizione di ambiente nord etrusco utilizzasse già il marmo di Carrara. Un esempio è la Testa Lorenzini, rinvenuta nei pressi di Volterra, esemplare di scultura etrusca databile intorno al 480 avanti Cristo e scolpita nel marmo delle Alpi Apuane. Precisamente con quello che i Romani chiamavano marmor Lunensis che corrisponde al marmo di Carrara. La testa era parte di una statua votiva del Dio Aplu ed era collocata in un tempio dell’antica città Etrusca di Velathri, odierna Volterra.
Il ravaneto oggetto degli studi della relazione purtroppo, oggi, non esiste più: la terribile alluvione del 2003 ne ha disperso ogni traccia.
© Foto di Luigi Giovanelli