“Zona umida” è una definizione che ricalca la voce inglese “wetland”, entrata in uso, prima nella comunità scientifica internazionale, e successivamente negli ambiti divulgativi, dopo la Conferenza internazionale di Ramsar, che si tenne in Iran nel 1971. Esito del convegno fu la convenzione relativa alle zone umide di importanza internazionale, soprattutto come habitat di uccelli acquatici, che il governo italiano ha ratificato nel 1976. In questo documento le zone umide vengono definite come “aree palustri, acquitrinose o morbose o comunque specchi d’acqua, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua ferma o corrente, dolce, salmastra o salata, compresi i tratti di mare in cui la profondità non superi i sei metri con la bassa marea”. Si tratta di una definizione, molto ampia che si articola in una gamma di tipologie diverse: zone umide naturali, semi-naturali e artificiali, litoranee o interne, d’acqua dolce, salmastra o salata, laghi costieri, stagni, acquitrini, paludi, lagune, canali, torbiere, delta fluviali, valli da pesca, saline: tutti questi ambienti, i cui paesaggi sono caratterizzati da una caratteristica mutevolezza, nonché da una sorta di medietà tra terre e acque, sono dunque ricompresi nel meta-concetto di zona umida.
La cultura occidentale, almeno nelle sue espressioni maggioritarie e socio-politicamente più influenti ha maturato, nel corso dei secoli, un atteggiamento fortemente negativo nei confronti delle zone umide. Ciò vale specialmente per quelle caratterizzate dalla presenza di acque stagnanti e torbide, identificate come portatrici di agenti infettivi o inquinanti molto pericolosi e come simbolo di degrado ambientale, la malattia, la morte, la mostruosità o la malinconia. Storicamente in tutta Europa le aree con paludi, stagni e acquitrini sono sempre state considerate ambienti putridi, pericolosi, emananti miasmi insalubri. Una vera demonizzazione, in cui ha certo avuto un ruolo determinante il collegamento palude-malaria. Non per caso la malaria era originariamente denominata “paludismo”. Ad acuire la cattiva considerazione delle zone umide accanto all’argomento della salute pubblica, ha agito anche l’idea che esse fossero inutili, improduttive, difficilmente attraversabili, sottraenti terreno sfruttabile per altri fini. Per tali ragioni, esse erano spesso rappresentate come fondamentalmente inabitabili e, di fatto, deserte, quando, invece, erano assiduamente frequentate dalle popolazioni locali. Negli anni a cavallo tra l”800 e il ‘900, grazie alle numerose e imponenti opere di bonifica, si è assistito gradualmente alla rivalutazione delle aree umide coinvolgendo sempre di più l’ambito culturale, oltre a quello ambientale. Con un “dècalage” temporale rispetto alla Gran Bretagna e alla Francia, questo processo si è verificato anche in Italia.
Le terre umide: nuove destinazioni turistiche
Uno dei primi ad occuparsi di valorizzazione turistica delle zone umide è stato Jack Keul, professore di geografia turistica dell’università di Cambridge, che svolse grande attività di ricerca all’estero, in particolare negli USA, nello stato della Louisiana, considerato la “Padania d’America”, e nella regione della Camargue, nel sud della Francia. Secondo Keulaff, il turismo nelle zone paludose costituisce una nuova forma di “commodification” delle risorse delle zone umide, dove le performance degli operatori turistici e dei turisti stessi, le narrative e le rappresentazioni turistiche tendono, infatti, a configurarsi come “una maniera innovativa di estrarre valore dalle aree umide, mentre nel tempo stesso ci si pone nella posizione di volerle proteggere”. Le potenzialità turistiche delle zone umide, a detta di Keul, risiedono inequivocabilmente nella promozione di attività escursionistico-ricreative, anche a scopo didattico, compresa la pescaturismo, ascrivibili alla categoria dell’ecoturismo.
L’Italia è ricca di zone umide, ciononostante, ad oggi, non sono mai state promosse attività a scopo turistico né da parte delle pubbliche amministrazioni, né dai privati. Tuttavia le terre umide italiane non solo avrebbero molto da offrire da un punto di vista naturalistico, ma sarebbero in grado di soddisfare altre tipologie di turismo, come quello culturale, ed il cosiddetto “slow tourism”, legato alla mobilità acquea che utilizza imbarcazioni e mezzi di propulsione tradizionali. Nelle aree umide italiane i valori geoculturali si intersecano indistricabilmente con i valori ambientali. Tra le tante zone umide d’Italia possiamo citarne alcune tra le più conosciute, come: la Laguna di Grado e Marano in Friuli-Venezia-Giulia; le lagune del veneziano; tutta l’area del Polesine in provincia di Rovigo; l’area di Comacchio in Emilia-Romagna; le lagune di Lesina e Varano nel Gargano in Puglia; la laguna di Villasimius in Sardegna, e in Toscana possiamo menzionare le due più importanti che sono la Laguna di Orbetello e il Padule di Fucecchio (la più grande della regione) e il lago di Massaciuccoli.
Fonti
Turri E. “Acqua e terra: una metamorfosi continua”, in “Lagune d’Italia. Visita alle zone umide dei nostri mari a piedi, in barca, in bicicletta, Touring Club Italiano, Milano, 1999.
F.L. Cavallo, Terre, acque, macchine. Geografi della bonifica in Italia tra Ottocento e Novecento, Diabasis, Reggio Emilia, 2011.