La līsta era, per gli antichi popoli germanici, la palizzata che delimitava lo spazio in cui i cavalieri si affrontavano in tornei, giostre e combattimenti. Il termine divenne lice per i francesi e dai pali posti sul perimetro degli agoni cavallereschi passò a indicare direttamente la gara, la lite, tra due contendenti. La lice francese diventò lizza in italiano, mantenendo, sostanzialmente, solo il significato traslato che già le avevano dato i francesi, cioè quello di competizione tra diversi soggetti espressa nella locuzione “essere in lizza”, ma l’originario significato tedesco che legava strettamente il termine ai pali di legno dei recinti si mantenne nell’accezione della parola “lizza” usata per indicare la tecnica per far scendere i blocchi di marmo lungo i fianchi delle montagne delle cave di Carrara da cui venivano estratti. La lizza nel linguaggio dei cavatori carraresi era la slitta cioè i tronchi di legno che, appositamente insaponati e posizionati, favorivano lo slittamento a valle del blocco. La tecnica della lizzatura, da lizza, appunto, tuttavia, era ben più antica della līsta tedesca ed era conosciuta già dagli Egizi.
Alle cave di marmo di Carrara, la lizzatura è attestata sin dai tempi dei romani, sebbene, all’epoca, come metodo di trasporto dei blocchi, fosse usato spesso anche l’abbrivio, che consisteva nel gettare il blocco nelle scarpate più ripide per farlo arrivare a valle. Ovviamente questa tecnica comportava un alto rischio di deterioramento del marmo, perché era priva di controllo da parte dell’uomo, quindi, per molti secoli la lizzatura fu il metodo privilegiato, se pur non poco pericoloso. I primi documenti che descrivono la lizzatura risalgono all’epoca di Michelangelo Buonarroti e sono quelli relativi al trasporto dei blocchi utilizzati dal grande artista con i relativi costi e rischi. Notizie sulla lizzatura si ritrovano anche in testi di Leonardo da Vinci, interessato ai principi fisici e alle macchine da usare per regolare la discesa di una forza potente come un blocco di marmo lungo il piano inclinato di una scarpata.
Il procedimento partiva dal momento in cui il blocco, estratto dalla montagna e riquadrato dai cavatori nel piazzale di cava, veniva preparato per la discesa a valle. Poteva trattarsi di un blocco unico, dalla forma di parallelepipedo oppure da più blocchi di dimensioni minori disposti comunque a formare la stessa figura solida, che era la più agevole da far scendere lungo la costa del monte. Il blocco singolo o l’insieme di più blocchi erano chiamati “cariche” e venivano collocati sopra le “soqquadre”, i detriti della cava o dei massi più piccoli che, comunque lasciavano sotto lo spazio per inserire i tronchi di legno della lizzatura. In genere il peso di una carica stava intorno alla venti tonnellate. I primi pali ad essere infilati sotto alle cariche erano, appunto, le lizze cioè grossi tronchi di faggio appuntiti dal diametro di oltre 15 centimetri e lunghi tra i quattro e i sette metri che servivano per manovrare il blocco. Dopo le lizze arrivavano i cavi chiamati “braghe” con i quali la carica veniva legata in modo da passare dentro a un unico anello in acciaio chiamato “grillo” che era quello che sosteneva tutto il peso della carica. I cavi, per molti secoli furono fatti da corde molto resistenti chiamate “canapi”, da canapa, il materiale di cui erano fatti, e solo nel ‘900 furono sostituiti da cavi in acciaio. I canapi avevano un alto rischio di rottura, il che comportava quasi sempre un incidente mortale, ed erano anche molto costosi, per cui spesso, le squadre di lizzatori erano costrette ad usarli oltre il limite della loro resistenza. Quando la carica era perfettamente imbragata, i lizzatori spaccavano le soqquadre e facevano gravare il peso dei blocchi solo sulle lizze e cominciavano la discesa nel punto, in genere, più impervio del pendio. Le discese, infatti, avvenivano lungo i ravaneti, cioè le scarpate fatte dai sassi di marmo gettati dai cavatori perché residui dell’estrazione e della riquadratura dei blocchi. Alla partenza del ravaneto e, a volte, in alcuni punti lungo la discesa, venivano fissati i cosiddetti “piri”: pali di legno o di marmo molto tozzi e solidi intorno ai quali venivano avvolti i cavi, che, allentati opportunamente permettevano al blocco di scendere lentamente. L’addetto a questa operazione era chiamato l’uomo del piro e rispondeva come tutti gli altri uomini della squadra ai comandi del capolizza, che era quello che regolava l’operazione stando esattamente davanti al blocco in discesa, quindi l’uomo che rischiava, più di tutti, di restare schiacciato se qualcosa andava storto. Ai suoi comandi c’erano i lizzatori veri e propri che erano quelli che infilavano sotto alla carica i pali in legno cosparsi di sapone – i parati – per facilitare lo slittamento. Ogni metro corrispondeva a una serie di parati che andavano tolti da dietro e rimessi davanti al blocco. A volte la discesa era costretta a compiere delle curve che richiedevano ai lizzatori impegno e attenzioni maggiori, oppure incontrava delle balze della montagna, cioè dei salti molto ripidi, nei quali tutti i rischi si decuplicavano. La lizzatura terminava al piazzale di carico dove i blocchi venivano issati sopra ai carri trainati dai buoi, per completare il loro tragitto fino al mare, dove venivano imbarcati.
Per secoli il mestiere del lizzatore, a Carrara, fu diffuso quanto quello del cavatore. Il primo colpo all’attività arrivò, alla metà dell’’800 con la costruzione della ferrovia marmifera, che dalle cave arrivava direttamente ai laboratori di marmo e al molo. Il tramonto definitivo tuttavia avvenne con l’avvento dei camion che, a metà degli anni ’50 misero la parola fine al più pericoloso dei mestieri legati al mondo del marmo.
Dell’antica pratica della lizzatura è rimasta solo la rievocazione storica che ogni anno, ad agosto, viene fatta a favore di turisti e spettatori, sebbene, ai tempi della lizza con i canapi, agosto non fosse affatto il mese prediletto dai lizzatori perché il caldo favoriva la rottura dei cavi.
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