Tante sono le definizioni assegnate a Sant’Antonio abate, religioso ed eremita vissuto nel III secolo dopo Cristo tra l’Egitto, sua patria d’origine e la Palestina: lo si ricorda come Sant’Antonio d’Egitto, appunto, o “il grande”, o ancora “l’anacoreta” o Sant’Antonio del deserto perché trascorse molti anni in solitudine nel deserto del Sahara. È lui quello del fuoco di Sant’Antonio, particolare forma di herpes zoster, diffusa in tutto il mondo, che porta il suo nome sebbene il santo, nella sua vita, nulla ebbe a che fare con le persone colpite da questa malattia.
Sant’Antonio è considerato il fondatore del monachesimo e al culto delle sue reliquie, sparse un po’ in tutto il mondo, venne dedicato, nel 1297, in un paesino della Francia che poi prese il nome del santo, l’ordine degli Ospedalieri Antoniani, monaci che si dedicavano esclusivamente alla cura dei malati di fuoco di Sant’Antonio. Sant’Antonio abate, di fatto, fu soprattutto un eremita che dedicò la maggior parte della sua vita a vivere in condizioni estreme di povertà e di mancanza di ogni conforto, per raggiungere la purificazione dell’anima da offrire a Dio.
La sua storia personale anticipa di oltre mille anni quella di San Francesco d’Assisi e ha diversi punti di contatto con quella, assai più recente di San Pio da Pietralcina: come Francesco, da giovane e benestante, figlio di ricchi agricoltori, decise improvvisamente di donare tutto ciò che aveva ai poveri per vivere solo con ciò che riusciva a procurarsi con le sue mani; come Padre Pio fu più volte tormentato dal demonio tanto da annoverare, nella parte finale della sua vita molte guarigioni di persone liberate da Satana.
Sant’Antonio non lasciò mai il Medio Oriente, spostandosi solo dall’Egitto a Gaza in Palestina, ma tutta la sua vita venne documentata quasi in tempo reale da Atanasio, vescovo di Alessandria e suo amico, che contribuì sicuramente a diffondere la conoscenza del santo nel resto del mondo cristiano.
Il culto di Sant’Antonio abate, in Europa, si diffuse soprattutto attraverso le reliquie del santo che, sicuramente, viaggiarono assai più di lui, fino a frammentarsi e disperdersi in molti santuari. Esattamente ciò che non avrebbero voluto i suoi seguaci quando, nel 356, Antonio morì, alla veneranda età di 105 anni e loro decisero di seppellirlo in un luogo segreto per evitare la corsa alle reliquie. Il sito della sepoltura rimase sconosciuto fino alla metà del sesto secolo dopo Cristo, ma, dopo il ritrovamento, i resti del santo cominciarono il loro pellegrinaggio passando da Alessandria a Costantinopoli, alla Francia, dove arrivarono nell’anno Mille e da dove cominciò la frammentazione. Porzioni di ossa del santo comparvero in varie chiese d’Europa, a volte in numero superiore alla quantità di ossa di un corpo umano. Due frammenti del braccio di Sant’Antonio si trovano, ad esempio, nelle abbazie di Novoli in Puglia e di Tricarico in Basilicata. Le sue origini contadine hanno associato al suo culto elementi tipici della civiltà agricola europea: nelle raffigurazioni appare spesso affiancato da un maiale, l’animale domestico per gli agricoltori, ma anche l’animale dal cui grasso i monaci Ospedalieri formavano una pomata che leniva le piaghe dell’herpes zoster; la sua lunghissima vita fece sì che, quasi sempre, Antonio sia stato raffigurato come un vecchio leggermente ricurvo con una lunga barba bianca, con in mano una campanella, strumento usato dai monaci Ospedalieri per annunciare il loro arrivo, e con un bastone con croce a tau.
Per la chiesa cattolica Sant’Antonio abate è diventato il patrono dei macellai, dei salumieri e degli animali domestici. Nel culto popolare la devozione al santo, ancora oggi viene espressa con l’accensione di grandi fuochi in occasione della festa che cade il 17 gennaio.
Non può essere ritenuto un caso, dunque, che la più antica Maestà in marmo presente nel comune di Carrara sia proprio dedicata a Sant’Antonio Abate. L’insegna che ricorda il santo egiziano risale al 1472 e si trova in via Carriona, la strada più antica della città e, per secoli, il cuore dello sviluppo peculiare di Carrara, in quanto unica via di transito dei carri, trainati dai buoi, che portavano al piano i blocchi di marmo estratti dalle cave: la via tracciata dai Romani per collegare le cave al porto di Luni e al litorale di Avenza, che all’epoca affacciava direttamente sul mare.
Che il culto di Sant’Antonio a Carrara sia stato particolarmente importante lo dimostra anche il fatto che esiste, ancora oggi, una località che porta il suo nome: la frazione di Sant’Antonio, tra il centro e il grande quartiere di Avenza, per secoli fu un’area campestre dedita principalmente all’agricoltura, il che, probabilmente spiega la dedica al santo.
L’iconografia classica di Sant’Antonio con la campanella e il maiale è sicuramente quella con la quale il santo era conosciuto e amato anche dai carraresi che, nel giorno della festa a lui dedicata, nel paese di Castelpoggio offrono la benedizione degli animali domestici.
© Foto di Luigi Giovanelli