Era raro, fino a una trentina d’anni fa, che in una casa carrarese mancasse un mortaio: il classico vaso di marmo dotato di un pestello di legno la cui funzione era quella di macinare le erbe aromatiche e, in particolar modo, il basilico con le noci per fare il pesto, ricetta importata dalla vicinissima Liguria. In molti casi si trattava di un oggetto ereditato dai propri avi che, il più delle volte, aveva solo funzione decorativa, ma il mortaio di marmo era comunque un oggetto familiare a tutti i carraresi e molti ne hanno realizzato vere e proprie collezioni.
Il legame con il pesto alla genovese è sicuramente preponderante, ma il mortaio di marmo era un oggetto presente nelle cucine locali sin da tempi molto antichi a testimonianza di una grande sapere culinario diffuso anche nelle classi meno abbienti. Il termine mortaio ha un’origine antichissima. È possibile ricondurlo alla parola ittita “mark” che significava fare in parti, ma anche a “Morta”, una delle parche e alla parola “mortare” da cui deriva il latino mortarius. Di un mortaio si parla anche nella Bibbia quando si racconta che la manna scesa dal cielo per sfamare gli ebrei in fuga dall’Egitto, veniva pestata per ottenere farina per focacce.
Sin dall’antichità il mortaio venne realizzato in pietra, affinando la conoscenza del materiale migliore per l’uso. Per l’Accademia della Crusca il mortaio è “un vaso di pietra, nel quale per lo più, si pestano le materie, per fare la salsa, ma ideale pure le granaglie e per la preparazione di pozioni medicinali”. Non è un caso, quindi, che il mortaio di marmo sia anche il simbolo dei farmacisti, ma il suo habitat naturale era assolutamente la cucina, dove, in epoca rinascimentale era praticamente l’accessorio più determinante. Lo testimonia il veneziano Bartolomeo Scappi, uno dei più celebri cuochi del Rinascimento, che nel suo trattato “Opera dell’arte del cucinare” del 1570 esige che in ogni cucina sia posta “una mezza colonna di pietra fissa in piedi per potervi in un bisogno potere il mortaro grande” e, di seguito, conferma che di mortai nelle cucine ce ne erano di ogni misura, ognuno con una sua specifica destinazione d’uso. Potevano esserci varie misure, non poteva esserci che un materiale: il marmo, che nel corso dei secoli aveva rivelato la sua superiorità come materiale da utilizzare rispetto a tutti gli altri.
La richiesta dei mortai in marmo, i più preziosi, i migliori in assoluto, ampliò la produzione di manufatti lapidei di Carrara, facendo diventare la città, o meglio, il paese di Miseglia, sede della maggior parte dei laboratori che producevano mortai, il centro di produzione più noto e importante. Il marmo era fondamentale per il mortaio, ma anche il pestello doveva rispondere a canoni ben precisi: innanzitutto il tipo di legno, che doveva essere per forza di ulivo perché era l’unico che non si lasciava impregnare dai vari sapori che venivano macinati e che quindi non inquinava il prodotto finale.
L’esistenza del mortaio risale già all’epoca romana e la si trova nella curiosa veste di pregiata zavorra per le navi che praticavano i commerci nel Mediterraneo. Secondo testimonianze dei primi secoli dell’impero romano le navi che portavano le merci all’antico porto di Lavenza, se rientravano senza carichi, imbarcavano grandi quantità di mortai che fungevano da zavorra per il viaggio di ritorno e che avevano un ottimo mercato nelle varie località in cui le navi attraccavano.
Oggi solo i cultori più raffinati della cucina usano il mortaio di marmo per fare il pesto alla genovese, tuttavia il mortaio è ancora un oggetto molto replicato nei laboratori carraresi a metà tra il souvenir e l’oggetto decorativo, ma il suo più grande mercato è sul web e quindi la sua diffusione ormai non è più locale, ma internazionale.
© Foto di Luigi Giovanelli