C’è stata una vita intensa, operosa e rumorosa. Ci sono state persone di passaggio e altre che si sono fermate per sempre. C’è stato un paese raccolto intorno alla sua chiesa, contornato dai suoi preziosi castagneti, illuminato dalle scintille di fuoco liberate dalle miniere di carbone che gli hanno dato il nome. C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui il piccolo borgo di Col di Favilla, sulle Apuane, era il crocevia di sentieri di montagna che erano le uniche strade di molti traffici commerciali. Un tempo in cui il borgo, sito a quasi mille metri d’altitudine sul Monte Corchia, sotto il Pizzo delle Saette, era pieno di vita. Un tempo che si è fermato nel 1960 quando l’ultimo degli abitanti di Col di Favilla se n’è andato dal paesino diventato ormai sperduto tra le montagne.
Da allora Col di Favilla, 940 metri sul livello del mare, nel comune di Stazzema, è un paese fantasma, di suggestiva e malinconica bellezza, che si rianima, quasi per magia, ogni 26 luglio in occasione della festa di Sant’Anna, patrona del paese, a cui è dedicata la piccola e preziosa chiesa risalente al 1670. La chiesetta di Sant’Anna era il fulcro della vita degli abitanti di Col di Favilla che cominciarono a stabilirsi in maniera permanente nelle case di fortuna costruite sin dal seicento dai pastori che, in quel luogo, portavano i greggi all’alpeggio. Le scarne e sparute dimore dei pastori stagionali, verso l’inizio dell’ottocento, divennero case sempre più comode e rifinite, fatte coi sassi e con l’ardesia sul tetto, brulicanti di persone e di traffici commerciali. A rendere appetibile Col di Favilla erano la produzione di carbone da legna, i pascoli per gli allevamenti di animali, le vicine ferriere del Canale delle Vergne che producevano metalli, l’arte dell’impagliatura delle sedie ma soprattutto la produzione di castagne, vero simbolo della vita a Col di Favilla. Le castagne servivano per farne farina e quindi cibi poveri ma prelibati come i necci, le pattone, le castagne secche inzuppate nel latte, ma servivano anche per produrre il tannino del castagno che veniva utilizzato dalle concerie della vicina Pisa. Per questo i colletorini, come si chiamavano gli abitanti di Col di Favilla, avevano una cura estrema dei castagneti nei quali era immerso il loro borgo tanto da tenerli quasi come giardini privati, ma a un certo punto tutto cambiò: la seconda guerra mondiale lasciò cicatrici profonde nel piccolo paese e la costruzione di una nuova strada che bypassava il paese gli diede il definitivo colpo di grazia. Di Col di Favilla rimase solo, nella memoria collettiva, la nozione della presenza, sulla facciata della sua chiesa, della meridiana più alta di tutta la Toscana, ma il ricordo del suo splendore riuscì ugualmente a passare di generazione in generazione anche ai discendenti degli ultimi abitanti del paese e proprio costoro, riuniti in un comitato, stanno cercando di recuperare, almeno in parte il paese, le cui case, vuote da più di mezzo secolo, stanno crollando. A loro si deve il risveglio del borgo nel giorno di Sant’Anna ed anche il restauro di alcune delle abitazioni meno malridotte.
Per arrivare a Col di Favilla si deve salire in auto fino al paese di Levigliani e poi arrampicarsi lungo la mulattiera detta delle Voltoline che disegna uno zig-zag sulla costa della montagna fino al Passo dell’Alpino. Il raggiungimento del passo offre una vista spettacolare sul Monte Pania, non a caso definita la regina delle apuane, e apre un sentiero a mezza costa che conduce in una fitta abetaia e poi alla Foce di Mosceta. Poco distante si trova il Rifugio Del Freo, punto di partenza per molte escursioni verso le cime dei due monti. Il sentiero prosegue con vista panoramica sulle pendici del Corchia: a sinistra si apre un’ampia prateria, sulla destra una folta abetaia attraverso la quale si passa nel percorso in discesa che segue di lì a poco. Al termine della discesa si torna a salire in mezzo ai castagni che annunciano l’arrivo nel borgo vuoto e silenzioso di Col di Favilla.
© Foto e percorso di Cristina Maioglio