Erano le 3 e mezza del mattino del 3 aprile 1899: il botto squarciò la notte e risuonò anche verso il piano, nella città adusa agli scoppi di mine, al fracasso di martelli e scalpelli, al clangore di ruote di ferro a massacrare i selciati, che solo di notte stava immersa nel silenzio. Dieci chili di polvere da sparo detonati in un colpo che sentirono tutti. L’ultimo grido disperato di una professione che stava scomparendo, soffocata dal progresso tecnologico. L’ultimo tentativo, inutile, di fermare il tempo.
Il materiale dinamitardo era stato messo dentro al pilone centrale dei Ponti di Vara: simbolo del passaggio dal trasporto dei blocchi di marmo dai carri coi buoi ai vagoni della ferrovia marmifera e a mettercelo erano stati i bovari, cioè gli ultimi rappresentanti di un mestiere che era sopravvissuto per secoli come ganglio fondamentale della filiera del marmo, ormai superato dal più rapido, efficace ed economico trasporto su treno. I bovari erano quelli che fornivano i buoi da traino ai barrocciai che, invece, erano i proprietari dei carri. Dei carri per trasportare il marmo si ha traccia già ai tempi dei Romani: strumento rimasto immutato nella sua funzione per duemila anni.
Il currus romano aveva quattro ruote collegate a un solido pianale sorretto da grosse travi di castagno o di faggio. Poco cambiò nei secoli: le ruote vennero rinforzate col ferro, si aggiunsero sistemi di frenata che erano indispensabili data la pendenza delle strade da percorrere in discesa dalle cave per evitare che il carico, che poteva arrivare a pesare anche quaranta tonnellate, finisse per schiacciare i buoi che lo trainavano. Solo quando, in epoca moderna, si cominciò a tagliare il marmo in lastre, venne introdotto un altro tipo di carro: la mambruca, molto più agile e semplice, trainato da soli due buoi con un pianale stretto e lungo posto su due ruote, ma molto vicino al livello del selciato per favorire il carico e scarico delle lastre. I bovari erano esperti nel trattare gli animali soprattutto nel condurli su percorsi così impervi, per quanto i metodi fossero quelli improntati a una visione totalmente utilitaristica dell’animale.
Tutto il mondo del marmo, dall’escavazione, al trasporto alla lavorazione è sempre stato contrassegnato dalla durezza quasi speculare a quella, preziosa, della pietra a cui si riferisce. Tutto era duro alle cave, spesso violento, anche il trasporto dei blocchi: i buoi venivano percossi con il pungolo affinché si muovessero ai comandi dei bovari. Se recalcitravano venivano spaventati con piccoli fuochi accesi davanti al muso. Per quanto preziosi per il mestiere dei bovari, venivano allevati con pochi riguardi: fieno di pessima qualità, stalle all’aperto, esposte al sole cocente e alle intemperie. Non a caso le razze prescelte per questo ruolo erano tra le più possenti e resistenti: il bue dorato pontremolese, il bue della Garfagnana, allevato in pascoli meno ostili di quelli carraresi e il bue maremmano, dalle corna enormi a mezzaluna, quello che più degli altri è diventato il simbolo del trasporto del marmo su carri. I buoi in attività meno addomesticati, avevano, in genere, i fianchi devastati da ferite sempre aperte e purulente causate dai pungoli dei bovari e le corna dipinte di rosso per ricordare ai bovari che erano “ignoranti e traditori”, laddove per ignoranti i carrarini hanno sempre inteso “cattivi”. Ce ne voleva uno ogni quattro buoi e a cavallo dell’ ‘800 a Carrara c’erano più di mille esemplari: il lavoro dei bovari era assicurato. Fino a quell’idea di portare la ferrovia fino alle cave.
La marmifera era stata inaugurata nel 1874, ma copriva solo il collegamento dal mare fino alla partenza delle strade per le cave. Nel 1890 venne completato il percorso che arrivava fino al piazzale di Fantiscritti e che passava, appunto, sui Ponti di Vara, appena conclusi. Cinque arcate di sedici metri di luce con un altezza massima di 38 metri, come una catena alle pendici delle montagne di marmo che si ergono imponenti alle spalle del ponte. Per i bovari solo il simbolo della loro fine.
La bomba danneggiò tre dei cinque pilastri le cui arcate dovettero essere rinforzate. I segni dell’attentato sono visibili ancora oggi, ma l’esplosione non fece crollare il ponte, né fermò l’avanzata del treno che a sua volta circa 60 anni dopo dovette cedere lo stesso ruolo ai camion. Il mestiere dei bovari era finito. Sopravvissero sempre in numero inferiore salvo una massiccia chiamata nel 1929, quando fu necessario portare al mare il blocco più grande mai tolto dalle cave di Carrara: il monolite. La lizzatura più lunga della storia. L’ultima apparizione di figure rimaste poi solo nella memoria.